Anima fragile, cantava anni fa Vasco Rossi. Quella fragilità con cui, a fasi più o meno alterne, ognuno di noi ha dovuto fare i conti e che, non a caso, fa rima con sensibilità. Negli ultimi anni sono stati molti, troppi, gli episodi che hanno messo in evidenza il fenomeno del bullismo, una vera e propria piaga sociale capace di condizionare l’esistenza di migliaia di persone che, soprattutto in giovane età, sono state vittime di soprusi psicologici e, in alcuni casi, anche fisici. Nel suo romanzo Nemici miei – Una lunga storia di bullismo (edizioni Albatros, pp. 121) Marco Albonico traccia gli inquietanti contorni del vero e proprio calvario subito da Carlo – il protagonista – nel corso di un periodo cruciale della sua vita, ovvero gli anni delle scuole elementari e medie, per mano di un manipolo di compagni di classe che lo hanno sottoposto ad angherie pressoché quotidiane. Gutta cavat lapidem, così come la goccia scava la pietra, il continuo perpetuarsi di insulti e atteggiamenti umilianti crea un solco ogni giorno più profondo nella serenità e nell’autostima di chi le subisce, condizionandone a volte irrimediabilmente la personalità.
Pagina dopo pagina, Marco Albonico riesce, grazie alla sua indubbia ed a tratti sorprendente abilità narrativa, ad accompagnarci lungo l’estenuante tragitto compiuto da Carlo, descrivendolo in modo coinvolgente a tal punto da farci vivere quei riprovevoli episodi come se, anziché seduti sulla nostra poltrona a leggere il libro, stessimo insieme a lui in quell’aula; un rapporto empatico a tal punto, quello che si crea con lo sfortunato protagonista, che nel corso di alcune scene induce a pensare che avremmo voluto essere lì, in quel preciso istante, per poter prendere le sue difese.
Una testimonianza fondamentale, quella messa nero su bianco da Marco Albonico nel suo Nemici miei, propedeutica all’emersione di una realtà che per troppo tempo, nel migliore dei casi, è stata affrontata con superficialità: «L’idea di scrivere questo libro – racconta l’Autore – nacque nel febbraio del 2011 quando, sfogliando un quotidiano, lessi di una professoressa di Palermo condannata ad un mese di carcere per aver punito un alunno costringendolo ad autodefinirsi “deficiente” sul proprio quaderno. Il ragazzo in questione aveva preso di mira un proprio compagno chiamandolo “gay”. Quella professoressa era stata condannata per aver fatto giustizia di un caso di bullismo: il danno e la beffa, il carnefice che si trasforma in vittima».
Se è vero, che anche in Italia, soprattutto grazie a denunce come quella fatta da Albonico, si comincia a prendere coscienza di cosa in realtà sia il bullismo, è altrettanto vero che la strada da compiere, tanto dal punto di vista legislativo quanto da quello dell’approccio, è ancora molto lunga, ma dobbiamo fare di tutto per percorrerla, ed anche in tempi brevi perché, come spiega l’Autore: «Alcuni ragazzi hanno riportato danni fisici permanenti, altri ancora non hanno retto all’umiliazione e alla paura, e hanno creduto che fuggire dalla vita fosse l’unica, anche se disperata, soluzione al loro problema». Anime fragili, spezzate dalla cecità di un’idiozia che non conosce limiti per il semplice fatto che non è in grado di riconoscere la diversità e la sensibilità come ricchezze, e non come motivi di scherno; forti con i deboli e deboli con i forti, insomma, ché, poi, altro non appare come una triste metafora della società in cui viviamo. A buon intenditor…