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Comunicazione

Il Russiagate è una bufala: vi dimostro come e perché Trump ha vinto (anche) con Facebook (senza bisogno dei russi)

Russigate? Ma fatemi il piacere. Sono mesi, ormai, che i media mainstream tentano di venderci la scoperta dell’acqua calda della profilazione degli utenti come lo scoop del secolo, illudendosi di poter costruire la narrazione che dovrebbe sfociare nell’impeachment su un argomento che nella realtà dei fatti è del tutto inconsistente. Lo fanno ripetendo, peraltro, il medesimo errore che commisero un anno fa ritenendo che stante l’endorsement del 95% dei media, Hillary Rodham Clinton dovesse vincere per diritto acquisito, tralasciando un piccolissimo dettaglio: gli elettori. Volendo parafrasare una delle massime più celebri del protagonista di House of Cards, Frank Underwood, potremmo dire che costoro si ostinano nel “sottovalutare la democrazia” anzitutto perché sopravvalutano loro stessi. Infatti, come dimostrano i dati riportati nella slide qui sotto, la credibilità dei media risulta essere in netto calo.

Le cause? Sono certamente diverse, e un’analisi del genere meriterebbe di essere sviscerata in un trattato, ma diciamo che essenzialmente questo fenomeno affonda le proprie radici in due fattori: il primo è costituito dalla parzialità di alcuni media, che commettono l’errore di voler spacciare le proprie opinioni per verità assolute. Un atteggiamento inevitabilmente portato a dividere, quindi a frammentare sempre di più la propria audience. Il secondo fattore si chiama clickbait, ed è la logica su cui è stato edificato l’intero sistema dell’informazione online: l’unità di misura non è la qualità di una articolo o l’attendibilità di una notizia, ma le visualizzazioni che è in grado di ottenere, poiché le Page Views significano soldi.

Più visualizzazioni uguale più introiti pubblicitari, ergo la priorità di qualsiasi editore è quella di pubblicare contenuti che possano diventare virali. Punto. I primi a fare le spese di questo sistema sono i giornalisti stessi, che da una parte hanno meno tempo a disposizione per verificare le fonti e dall’altra si vedono costretti a rincorrere lo scoop a tutti i costi.

Fatta chiarezza su questo principio risulta più semplice comprendere i motivi che spingono i media a enfatizzare alcune notizie anziché altre, oppure a schierarsi apertamente prendendo spesso posizione su questioni di natura politica o sociale. In troppi casi la credibilità costruita in decenni di giornalismo con la G maiuscola viene sacrificata sull’altare del click, del consenso immediato, del giornalismo iterativo.

Da qui a casi costruiti su una montagna di nulla come il Russiagate il passo è breve, per non dire obbligato. Attenzione, trovo sia corretto ricordare che scrivo di questi argomenti con una certa cognizione di causa, dal momento che per oltre un anno ho avuto modo di conoscere direttamente i vari substrati di cui si compone l’elettorato americano prima attraverso il web, nelle vesti di “candidato” alla nomination repubblicana, e poi come inviato negli USA dove, tra le altre cose, ho potuto vedere attuate sul campo le tecniche di comunicazione di cui sto per parlarvi, nella fattispecie in Pennsylvania, uno degli stati chiave per la vittoria di Trump, a due giorni dal voto. A tutto questo, poi, va aggiunto che il mio mestiere consiste nell’occuparmi esattamente in questo genere di cose, essendo io un advisor di marketing digitale e politico. Lo dico perché oggi è semplicissimo imbattersi in articoli vergati da firme anche eccellenti che denotano, però, una sostanziale mancanza di competenze specifiche per poter affrontare determinate questioni risultando minimamente credibili.

Prima di entrare nello specifico, sempre a proposito dell’attendibilità, vi consiglio di sentire con le vostre orecchie ciò che disse la scorsa estate John Bonefield, supervising producer della CNN, che in questo video definì le notizie sul Russiagate «bullshit», baggianate, facendo poi notare come non esista alcuna «smoking gun» (prova) in grado di incastrare Trump.

Ma veniamo all’accusa più ricorrente, cioè quella secondo cui l’elettorato americano sarebbe stato in larga parte influenzato da post Facebook sponsorizzati in Russia, analizzando un altro dato, ovvero quanto hanno speso i due candidati per la campagna elettorale in cui si sono giocati la presidenza degli Stati Uniti d’America. Come possiamo vedere in questa grafica del Washington Post il budget di Hillary Clinton ammonta a 1,4 miliardi di dollari, superando Donald Trump di circa 450 milioni. Come spiega Josh Constine in quest’articolo su TechCrunch i due contenders hanno investito complessivamente 81 milioni in post sponsorizzati su Facebook, mentre non vi sarebbe alcun riscontro dei fantomatici 146 milioni di americani raggiunti da annunci pagati con soldi provenienti dalla russia e che, ad oggi, le transazioni che risultano effettivamente riconducibili a siti di disinformazione russi si aggirano attorno ai 100.000 dollari. Cioè niente, come vedremo tra poco.

Adesso, come detto, vediamo come funzionano i post sponsorizzati di Facebook. Per dimostrarvelo ho simulato due promozioni calibrandole su entrambi gli elettorati, scegliendo come territorio uno dei cosiddetti Swing States, ovvero gli stati in bilico che hanno poi determinato la vittoria di Donald Trump.

Come è possibile vedere da questo primo screenshot, Facebook consente di selezionare l’area di riferimento e anche la fascia di età a cui indirizzare il messaggio. In fondo vediamo che il pubblico potenzialmente raggiungibile è di 9.100.000 utenti, assolutamente non male, considerando che lo Stato della Pennsylvania conta poco meno di 13 milioni di abitanti.

 

Il secondo step consiste nell’affinare il target di riferimento, in questo caso ho selezionato i requisiti che mi hanno consentito di ottenere un pubblico di 4.600.000 persone, tutte potenzialmente orientate a votare Hillary Clinton, almeno in linea teorica.

 

Terzo e ultimo step, la scelta del budget che, come vedete, è direttamente proporzionale alla copertura che avrà il contenuto che state sponsorizzando. In questo caso, investendo 1 milione di euro il vostro post sarà visualizzato da un pubblico che Facebook stima tra 1.400.000 e 1.700.000 utenti.

 

Stesso discorso vale per un ipotetico post sponsorizzato rivolto all’elettorato potenzialmente repubblicano, in questo caso la platea è di 5.700.000 utenti.

 

In questo caso, sponsorizzando il post per 800.000 euro, ci assicuriamo una copertura stimata che va dai 2.500.000 ai 3.400.000 utenti residenti in Pennsylvania.

 

Il sesto e ultimo screenshot evidenzia un’altra possibilità, su cui lo staff di Trump ha puntato forte, tanto che il digital director della sua campagna, Brad Parscale, ha poi raccontato di aver messo in atto una strategia basata su annunci sponsorizzati improntata alla conquista degli elettori indecisi fino all’ultimo minuto utile, un investimento «senza il quale non avremmo mai potuto vincere». Nella fattispecie, vediamo come sia possibile selezionare gli interessi degli utenti che vogliamo visualizzino il nostro post: questa selezione è senz’altro molto simile a quelle realizzate dai repubblicani per diffondere non contenuti pro-Trump ma video come questo in cui, nel corso di un dibattito per le primarie democratiche del 2008, Obama annichilì Hillary utilizzando argomenti nei confronti dei quali l’elettorato Dem è storicamente sensibile, sopratutto tra i sostenitori di Bernie Sanders. La finalità di questi post era orientata non tanto alla difficile impresa di convincere gli elettori democratici a votare Trump, quanto di dissuaderli dal votare la Clinton.

 

Come avete potuto vedere voi stessi, il potentissimo strumento della pubblicità su Facebook non soltanto è alla portata di chiunque, ma è stato ampiamente utilizzato da entrambi i candidati, che per farlo non hanno certo avuto bisogno dei fantomatici hacker russi. Alla fine di tutto questo ragionamento, a emergere è un’altra considerazione con cui molti degli addetti ai lavori che ancora non l’hanno fatto prima o poi dovranno fare i conti se intendono comprendere il “fenomeno Trump” e, con esso, le ragioni della sua vittoria.

Mi riferisco al fatto che i maggiori fautori del suo successo stanno altrove, nel mondo reale, e che tutt’al più i social networks possono fungere da cassa di risonanza – potentissima, è vero – ma di fatti realmente avvenuti.

Mi spiego. I democratici sapevano fin dal principio che Hillary Clinton sarebbe stata un pessimo candidato principalmente per i motivi che le rinfacciò pubblicamente Obama nel video che abbiamo guardato poc’anzi e, cioè, che lei rappresenta l’establishment, le grandi corporation (per non parlare di altre cosucce come lo scandalo Emailgate, il disastro di Bengasi, l’opacità della Clinton Foundation e i trascorsi di suo marito Bill). Non a caso le “Podesta emails” (non hackerate dai russi, ma divulgate da alcuni membri dello staff democratico «disgustati» da quanto stava accadendo) certificano come il Partito Democratico abbia giocato sporco per consentire alla Clinton di soffiare la nomination a Sanders. Così come, specularmente, è noto come i repubblicani si siano fatti battere in casa da un outsider essenzialmente per non essere stati capaci di individuare sin dal principio un candidato forte sul quale puntare.

Se a tutto questo aggiungiamo il contesto socioeconomico di grande malcontento (peraltro molto simile al nostro), e le grandissime doti comunicative di Donald Trump, ecco che il gioco è fatto. A prescindere dai russi.

Alessandro Nardone

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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