Una cosa positiva questa campagna elettorale ce l’ha eccome: la sua brevità. A giudicare dalla penosa escalation di quest’ultimo mese e mezzo, qualora si fosse votato a giugno saremmo stati inghiottiti dal buco nero di una guerra civile o giù di lì. Invece, grazie a dio, domenica sarà tutto finito e tutto tornerà come prima. I motori sbiellati delle arrugginite macchine del politichese la smetteranno di assordarci, le relative maschere elettorali cadranno e i fili del palcoscenico torneranno nelle sapienti mani dei pochi che saranno chiamati a celebrare le estenuanti liturgie di palazzo.
Comunque andrà a finire non finirà, poiché la legge elettorale partorita in extremis dal Parlamento uscente è un tale aborto da riuscire nell’impresa (a dir poco titanica) di far rimpiangere il Porcellum, in quanto è stata concepita essenzialmente con due obiettivi: evitare di farci scegliere i parlamentari consentendo ai padroni dei partiti di continuare a nominarli, e impedire al Movimento 5 Stelle di vincere le elezioni. Ergo, più che di voto utile sarebbe il caso di parlare di voto inutile.
Parafrasando quel genio di Giorgio Gaber, mi verrebbe da dire che più che la campagna elettorale in sé, mi preoccupa la campagna elettorale in noi. Nel senso che le grandi armi di distrazione di massa della propaganda hanno funzionato anche stavolta, riuscendo a far attecchire in molti concetti perlopiù ridicoli grazie alla loro ripetizione ossessiva. Tecnica, questa, che ha visto la luce ben prima di Web e social networks, della quale troviamo traccia in ogni singolo capitolo della storia degli ultimi cent’anni e che ci insegna come sia infinitamente più semplice e redditizio buttarla in caciara parlando per slogan, anziché farsi portatori di un programma elettorale serio quando non addirittura di una visione per il futuro. Figuriamoci.
D’altra parte, alla base di tutto, a essere sbagliato è il presupposto di partenza, ovvero che alle nostre latitudini sia uso e costume fare politica in funzione del consenso e del mantenimento del potere e non di cosa sia effettivamente giusto per la collettività.
Un modus operandi da cui deriva una fetta assai consistente dei mali atavici dell’Italia, una sorta di muro di gomma contro cui rimbalzano tutte le questioni più importanti che, nella migliore delle ipotesi, saranno copiate e incollate in estemporanei annunci propagandistici destinati a durare il tempo di un tweet.
Queste, nostro malgrado, sono le premesse con cui domenica andremo a braccetto sino al seggio elettorale, dove alla fine opteremo per quello che riterremo il migliore. Sì, ma dei peggiori.
Difatti, chi è di sinistra potrà scegliere tra il Partito Democratico del Renzi autore del Jobs Act e della riforma dell’articolo 18 e LeU, acronimo di Liberi (da Renzi) e Uguali (a prima) tra le cui fila, oltre a Boldrini e Grasso, ritroviamo gli immarcescibili D’Alema, Bersani, Civati e compagnia cantante. Insomma, comunque vada sarà un insuccesso.
Se Atene piange Sparta non ride: all’orizzonte della sponda opposta si staglia la figura del Colosso di Arcore, statua (rigorosamente di cera) raffigurante un imperituro Silvio Berlusconi che nonostante le 81 primavere suonate risulta di gran lunga il migliore dei suoi, che è tutto dire. Poi, sovrapposti alla sua destra, il telegenico Salvini nazionale ma senza Tricolore e l’incazzosa Giorgia Meloni che giocano a chi ce l’ha più dura (la coerenza).
Tra questi due fuochi piuttosto affievoliti scorgiamo Di Maio e il Movimento 5 Stelle, vittime degli attacchi concentrici degli avversari del cosiddetto establishment che contestano loro dilettantismo, inesperienza quando non cialtronaggine. Critiche che in molti casi sarebbero pure fondate, ma che risultano quantomeno risibili dinnanzi alle travi che stanno di casa negli occhi di chi le muove. Quasi quasi la tentazione di votarli a prescindere ci sarebbe anche ma poi, senti parlare di proposte come il reddito di cittadinanza e ad andar bene ti cascano le braccia.
Insomma, viviamo il medesimo stato d’animo del condannato costretto a scegliere se morire impiccato o fucilato, per di più consapevoli che anche stavolta, qualunque cosa faremo, il sistema rispedirà per l’ennesima volta il futuro nel passato. Five more years.
Alessandro Nardone