Chi di Rosatellum ferisce, di Rosatellum perisce. Solo lo scorso autunno Berlusconi e Renzi si fregavano le mani: la loro pessima legge elettorale era cosa fatta e, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto spianare la strada a un nuovo governo targato PD – Forza Italia. Malgrado ciò gli elettori li hanno puniti, probabilmente anche in ragione di questo tentativo di boicottare una vittoria pentastellata. Il renzusconismo è ai titoli di coda, insomma.
Un’altra esperienza che gli elettori hanno definitivamente consegnato alla storia è quella dei partiti o movimenti di matrice ideologica ridotti, nel caso di Liberi e Uguali e Fratelli d’Italia, a percentuali marginali tanto quanto appaiono le loro rispettive prospettive politiche.
Alla sinistra il compito di ricostruire sulle macerie e, in questo senso, le dimissioni di Renzi parrebbero prodromiche a un progetto nuovamente e verosimilmente unitario. In teoria. Nei fatti, con il suo intervento di ieri, ha dimostrato come nemmeno questa batosta gli sia servita per comprendere, una volta per tutte, le ragioni della disfatta. Sembrava di assistere ad una conferenza stampa di Al Sahaf, il mitologico ministro dell’Informazione di Saddam Hussein capace di negare l’evidenza fino all’ultimo, affermando che le truppe americane erano “state respinte”. Meraviglioso. Ecco, sostanzialmente Renzi ha detto che non è stato lui a perdere, ma gli altri a vincere, sciorinando i medesimi argomenti che hanno sospinto la sua parabola politica in direzione di una traiettoria suicida che, ora come ora, salvo miracoli appare irreversibile.
Tra le tante corbellerie, ha ripetuto la litania secondo cui la colpa dell’attuale situazione di stallo sarebbe da addebitare a coloro i quali, in occasione del referendum costituzionale, capeggiarono il fronte del NO, dimenticandosi che fu proprio lui – dicendo che se avesse perso avrebbe lasciato la politica – l’artefice del miracolo di ricompattare, in un sol colpo, sia la sua opposizione interna che un centrodestra che, è bene ricordarlo, a quel tempo pareva a malapena un ectoplasma.
Una mancanza di profondità di analisi da cui emergono essenzialmente due considerazioni: la prima è che l’acume politico di Renzi è stato decisamente sopravvalutato, e la seconda è che l’ex rottamatore si è circondato di collaboratori politicamente eunuchi incapaci, cioè, di fornirgli qualsivoglia spunto di riflessione capace di aprirgli gli occhi su questioni delle quali, peraltro, nel cosiddetto mondo reale si erano accorti tutti. Tranne loro.
Sulla sponda opposta appare evidente la sovrapposizione di Lega e Fratelli d’Italia, che hanno un’offerta politica praticamente identica: se è vero, come rivendica Giorgia Meloni, che il suo partito ha raddoppiato i voti passando dal 2 al 4%, è altrettanto vero che nel medesimo arco di tempo Matteo Salvini è stato capace di portare una Lega moribonda (ricordate la Tanzania, i diamanti, Belsito e il Trota?) dal 4 a quasi il 18%.
Analizzando i rispettivi trend di crescita risulta perfino banale constatare la differenza di appeal sia nel presente che in prospettiva, soprattutto se consideriamo che anche nella maggior parte dei collegi del centrosud la Lega di Salvini – nonostante fosse all’esordio – in molti casi ha raggiunto, quando non superato, le percentuali di Fratelli d’Italia.
Un processo che avviene nonostante le indubbie qualità comunicative e aggregative di Giorgia Meloni, che a questo punto dovrebbe prendere atto del fatto che, con il loro voto di domenica, gli italiani abbiano certificato di non essere più interessati (né tanto meno affascinati) dai rimandi alle ideologie del passato, rispedendo fascismo e antifascismo al loro posto: tra le pagine dei libri di storia.
Ora, se la leader di Fratelli d’Italia, forte comunque di una nutrita pattuglia di parlamentari, saprà cogliere questa indicazione tramutandola in un’opportunità, potrà puntare all’area di consenso di Forza Italia che, volenti o nolenti, da qui ai prossimi 5 anni dovrà trovarsi una nuova rappresentanza politica. La vera sfida per la Meloni sta lì, in una sorta di Pdl 3.0, l’alternativa è finire fagocitata dalla Lega di Salvini.
Alessandro Nardone