L’ex Ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda conoscerà certamente la Strategia Oceano Blu, una teoria basata sulla metafora di due oceani paralleli tra i quali le imprese possono scegliere: l’oceano rosso è composto da tutte le realtà che focalizzano la loro attività sulla concorrenza, studiandola e tentando di conquistare quote di mercato sottraendole ai competitor. Va da sé che, in un ecosistema il cui presupposto è la competizione, la consistenza dei margini sia inversamente proporzionale rispetto al numero dei concorrenti, anche e sopratutto in virtù del fatto che l’attività di ognuno sarà verosimilmente incentrata sull’erosione di quote altrui livellando, così, i profitti verso il basso. È inevitabile.
Viceversa, l’oceano blu è incardinato sul concetto di innovazione, ovverosia lo sviluppo di nuove idee e la valorizzazione in termini innovativi di ciò che già esiste finalizzata alla creazione di nuovi mercati. Si tratta di una teoria di cui venni a conoscenza alcuni anni fa, e che ho ripreso nei giorni scorsi per preparare un intervento che dovrò tenere nel corso di un importante meeting sul maketing digitale a fine giugno. Rileggendo il testo, ho immediatamente pensato al collegamento con la comunicazione di quello spazio politico che una volta conoscevamo come centrosinistra, il cui perimetro, oggi, è pressoché limitato al Partito Democratico e ad alcuni cespugli oggettivamente poco influenti.
Premetto che io non sono di sinistra, ma nonostante ciò fui tra i delusi di centrodestra che in quel fatidico 4 dicembre del 2016 votarono Sì al referendum costituzionale. Allora perché un post sulla comunicazione politica della sinistra? Sono sicuro che molti, leggendo l’introduzione, ci siano già arrivati: per il semplice fatto che risulta evidente come, almeno dal 1994, la sinistra si ostini ad annaspare in un oceano rosso. Mi spiego.
La reazione del PD al governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle è stata quella di rispolverare per l’ennesima volta armi al limite del demenziale come il “fascismo” e la demonizzazione tout court dell’avversario politico. Ché, poi, è stata la medesima strategia attuata sin dal ’94 nei confronti di un certo Silvio Berlusconi, una sorta di dolce e per questo subdola ossessione da cui la sinistra si è lasciata ammantare per poi condannarsi all’inconsapevole ruolo di amplificatore del berlusconismo. Anzi, per dirla tutta credo che il berlusconismo sia figlio della sinistra, più che di Berlusconi stesso.
In soldoni il concetto è questo: il centrosinistra incentrava la sua azione contro Berlusconi, il centrodestra a favore di Berlusconi e con loro i rispettivi media di riferimento, risultato: tutti parlavano di Berlusconi.
Diciamo che, in questo senso, l’avversione aprioristica di democratici e media mainstream nei confronti di Donald Trump ha sortito il medesimo effetto, ovvero ha polarizzato la discussione su di lui trasformando, di fatto, la campagna per le elezioni presidenziali in una sorta di referendum pro o contro il tycoon newyorkese, mettendolo nelle condizioni di vincere.
Non è certamente un caso se fenomeni siffatti tendano a manifestarsi a seguito dei fallimenti dell’establishment: Berlusconi dopo gli scandali di Tangentopoli; la Brexit, Trump e il governo Salvimaio a seguito degli effetti devastanti di una mutazione economica che ovunque ha impoverito la middle class arricchendo le élites.
Di fatto, la globalizzazione si è manifestata come una sorta di grande uragano che ha trascinato con sé ogni cosa, sortendo l’effetto di globalizzare anche i problemi dell’Occidente che, dall’Europa agli Stati Uniti, deve far quindi fronte a quella che si configura come una grande agenda comune: forte perdita di potere d’acquisto della classe media, controllo delle politiche migratorie, affermazione di valori identitari e difesa del principio di sovranità nazionale in antitesi alle lobby e ai poteri sovranazionali.
Un quadro che, oltretutto, ognuno di noi osserva attraverso la realtà aumentata dei social networks e dell’informazione di massa, elementi che hanno spalancato le porte a nuove forme di comunicazione e aggregazione, introducendo quello che definisco come il concetto di partecipazione percepita e partecipazione reale che, per alcuni leaders politici, consiste nel limitarsi a misurare il proprio consenso attraverso il numero dei like e dei retweet, anziché in quelle che in gergo definiamo conversioni, nel loro caso voti.
Errore costato carissimo a Matteo Renzi che, insieme ai suoi collaboratori più stretti, dopo il 40% delle elezioni europee del 2014 si è illuso che, da lì in poi, egli sarebbe assurto al ruolo di Re Mida della politica italiana per svariati lustri, a prescindere dalla sua condotta al timone del governo.
Trump, giusto per citare l’archetipo del politico social, così come Salvini e Di Maio alle nostre latitudini, oltre a sfruttare i nuovi media per bypassare quelli tradizionali, riempie piazze e palazzetti anche nel mondo reale: in qualità di testimone oculare, posso confermare che, nel 2016, mentre fuori da ogni suo evento c’era la fila, molto spesso lo staff della Clinton è dovuto ricorrere a inquadrature strette per foto e video, tecnica utilizzata per evitare di riprendere i tanti spazi vuoti tra il pubblico.
Insomma, nulla è più come prima, se ne sono accorti tutti, tranne alcuni protagonisti della politica, molti dei quali al vertice del Partito Democratico che, a giudicare dagli argomenti che sciorinano in tv, più che reduci dalle elezioni politiche del 2018 sembrano appena scesi dalla De Lorean di Ritorno al Futuro arrivata dall’anno 1998. L’appello ai progressisti, il fronte repubblicano, l’alleanza democratica e compagnia cantante, non sono che succedanei di un passato del quale non è sopravvissuta nemmeno la dicotomia destra-sinistra.
Ergo, a mio modestissimo avviso, l’unica speranza dei democratici è quella di comprendere che dovranno creare quel famoso nuovo mercato di cui parlavo all’inizio, per il semplice fatto che la situazione socio-economica contemporanea ha sovvertito gli schemi sui quali poggiavano molti dei presupposti stessi su cui era incardinata l’offerta politico-valoriale del Pc-Pds-Ds-Pd, basti pensare alla totale disconnessione con quello che, una volta, era l’elettorato di riferimento, la medesima classe operaia che ora si sente rappresentata dai movimenti cosiddetti populisti e non certo da una sinistra che ha finito con l’essere percepita come rappresentante delle élite e, nella migliore delle ipotesi, di minoranze che sono tali anche in termini di consensi elettorali.
L’alternativa all’innovazione (vera, non di facciata) è già scritta: annegare in quell’oceano che, manco a farlo apposta, è l’unica cosa autenticamente rossa rimasta alla sinistra. Sarà per questo che non intende liberarsene?