di Alessandro Nardone – Battendo Hillary Clinton, Trump ha letteralmente svuotato i democratici, d’America e non solo. La campagna elettorale delle recenti Midterm non è stata che l’ennesima conferma di un fenomeno che, attraverso i cavi di fibra ottica della Rete, si è immediatamente propagato nel tempo e nello spazio trovando terreno fertile al cospetto di tutti i popoli che hanno visto il proprio tenore di vita crollare verticalmente dopo la crisi che ebbe inizio nel 2008, con l’esplosione della bolla speculativa.
Dal palco della convention repubblicana di Cleveland, appena conquistata la nomination, Trump si rivolse agli americani con un perentorio «sono la vostra voce» ben presto rivelatosi assai più di uno slogan: se, infatti, la sola Brexit, per quanto dirompente, poteva essere derubricata a semplice “episodio”, la vittoria del tycoon newyorkese è stato il marchio a fuoco che ha certificato inconfutabilmente l’anacronismo di una sinistra che dice di battersi per i più deboli andando, però, a braccetto con l’establishment, un modello incarnato perfettamente dalla Clinton.
Concetto che, prima di Trump, evidenziò anche un certo Barack Obama che, in occasione di un dibattito per le primarie democratiche del 2008, in pochi secondi costrinse la propria sfidante di allora a guardare in faccia la realtà che ne faceva un candidato del tutto inadeguato per l’elettorato dem, all’epoca come nel 2016.
«Mentre io stavo in strada a lottare con la nostra gente, tu eri già l’avvocato delle grandi corporation e sedevi nel consiglio d’amministrazione di Walmart» le parole di Obama, che non a caso otto anni dopo vennero utilizzate sia da sostenitori di Sanders (a cui la nomination fu sostanzialmente scippata), sia da quelli di Trump, che le diffusero soprattutto per dissuadere i non già entusiasti elettori dem dal recarsi alle urne.
Nel frattempo, il 17 gennaio l’amministrazione Trump giungerà al giro di boa senza che nessuno dei distastri apocalittici annunciati due anni prima da buona parte del mainstream si sia verificato e, anzi, forte dei successi in campo economico e sullo scacchiere internazionale. Sul fronte opposto, i democratici hanno affidato le speranze (rimaste tali) di un “cappotto” alle elezioni di metà mandato a un Obama apparso ingrigito anche nell’eloquio, costretto a un’improbabile arrampicata sugli specchi nel tentativo di restituire al brand del suo partito quantomeno una parvenza di quell’identità che, come dicevamo in apertura, pare essersi completamente dissolta. D’altra parte, se così non fosse, un aspirante candidato come l’ex vicepresidente Biden non sarebbe certo considerato come una sorta di salvatore della patria ma, tutt’al più, alla stregua di un rispettabile outsider.
Invece, basandoci sulle rilevazioni attuali, sarebbero lui e Bernie Sanders – entrambi sulla soglia degli 80 anni nel 2020 – a giocarsi la nomination per sfidare Trump nel 2020. Come scegliere tra morire fucilati o impiccati, insomma. Proprio così, perché alla palese incapacità di rinnovare classe dirigente e offerta politica, va aggiunto il dato relativo alla tendenza democratica di premiare i candidati più giovani.
A questo proposito, prendendo i dati anagrafici relativi agli ultimi quattro presidenti democratici, cioè Kennedy, Carter, Clinton e Obama, abbiamo un’età media di 47 anni, contro i 64,25 dei corrispettivi repubblicani (ovvero Trump, i due Bush e Reagan). Già questo la dice lunga sulle condizioni in cui versano i dem che, se vorranno giocarsela sul serio, dovranno utilizzare questa lunghissima campagna elettorale per dotarsi di una nuova leadership, investendo non sul cosiddetto “usato sicuro”, ma puntando su un “Mr o Mrs X” di cui ancora nessuno ha sentito parlare.