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Take News

Detto tra noi, ne ho le tasche piene di chi si lamenta e basta, senza muovere un dito affinché le cose cambino. I politici sono corrotti, i magistrati rompono le palle, i preti sono tutti pedofili, i medici sono al servizio delle multinazionali farmaceutiche e financo le Forze dell’Ordine, buone fino a quando (per stipendi da fame) rischiano la loro vita per proteggere la nostra, diventano subito indigeste qualora tentino di farci rispettare le regole. Altro che Mini Bot, se convertissimo la bile in Pil – il Bil, appunto, che suona pure bene – schizzeremmo in men che non si dica in cima alla classifica delle potenze economiche del Globo. Ovviamente, nel paniere del Bil rientra a pieno titolo anche il mondo dell’informazione tout-court che, a onor del vero, questo primo Ventennio Internettiano, anziché coglierlo come l’enorme opportunità che era (e, nonostante tutto, ancora è), lo ha subìto, lasciando che a riscrivere le regole del gioco fossero i grandi player del Web, sacrificando valori supremi quali qualità e autorevolezza sull’altare del famelico “Dio Click”.

Pensavano di arricchirsi, ma stavano firmando la propria condanna a morte. Si sono illusi di poter creare due livelli distinti e distanti: il primo, quello delle grandi firme, sempre più ricco grazie al lavoro sporco delegato al secondo, quello dei giornalisti “semplici” ridotti a schiavi della tastiera, costretti a sfornare un articolo dietro l’altro per poche, miserabili, decine di euro.

Purtroppo per loro – e anche per noi – l’abbassamento del livello è inevitabilmente coinciso con un crollo verticale di credibilità che ha trascinato l’intera categoria nel baratro in cui oggi si trova a brancolare. Il buio è pesto, e di una via d’uscita non v’è la benché minima traccia.

Veniamo alle conseguenze. Avete presente la facilità con cui, oggi, i leader politici possono permettersi di bypassare i media tradizionali comunicando “direttamente” con i propri interlocutori attraverso i social? Be’, gran parte del merito (o della colpa, dipende ai punti di vista) è da ascriversi al succitato suicidio di massa dei media oramai ex mainstream, che tentano di sfuggire alla loro agonia non ammettendo l’errore e tentando di correggersi, ma aggrappandosi a fenomeni fake come lo è quello delle fake news, nelle fattezze e nelle modalità da essi descritte.

Pensiamo al Russiagate: due anni di libri, reportage, articolesse, predicozzi, richieste di impeachment e perfino un premio Pulitzer a New York Times e Washington Post per «l’interesse pubblico delle loro inchieste, che hanno contribuito far conoscere agli americani la collusione tra la campagna di Trump e le autorità russe». Tutto perfetto, bellissimo, il trionfo del politicamente corretto, la grande rivincita dopo la figura di palta rimediata con la vittoria di quello zoticone che da due anni osa infestare la Casa Bianca con i suoi maleodoranti rigurgiti populisti.

Peccato, però, che nonostante tutto questo cancan mediatico, l’inchiesta di Mueller si sia chiusa con un «no collusion» che, tradotto, significa che il Russiagate è una balla colossale, esattamente come i sondaggi che fino al giorno prima delle elezioni davano a Trump il 3% delle possibilità di battere la Clinton.

La crisi della stampa non è quindi colpa di Internet, ma di chi si ostina a non voler comprendere che aumentando esponenzialmente l’offerta, il Web ci ha abituati a selezionare molto di più rispetto al passato, in ogni settore, informazione compresa. Per capirci, se il proprietario di un ristorante vi dicesse che non capite nulla di cibo perché ordinate un piatto anziché un altro, difficilmente tornereste a cena da lui, mi pare ovvio. Stante questo principio, non vedo come un editore possa pensare di vendere anche solo una copia a quelle medesime persone che quotidianamente, il proprio giornale definisce populiste se votano Salvini, razziste se osano dire che ci sono (anche) immigrati che delinquono, islamofobe quando si permettono di parlare di terrorismo islamico, omofobe se a genitore 1 e 2 preferiscono mamma e papà, e via di questo passo.

Troppo comodo lamentarsi del Bil con una mano, e favorirne la produzione con l’altra. Piuttosto, sarebbe necessario prendere atto che o si punta a ritrovare autorevolezza e credibilità attraverso la qualità dell’informazione, o i media tradizionali non sopravviveranno a lungo.

Cavalcare le fake news ha portato sull’orlo del precipizio, che si può evitare soltanto con una riconversione al ruolo originario di take news, ovvero prendere notizie e pubblicarle.

Informare, fare inchiesta, esprimere opinioni: tutto sacrosanto, purché non si pretenda di essere i depositari del pensiero unico, perché in tal caso, l’unico pensiero di chi non la pensa come voi, sarà a quello di mandarvi definitivamente a quel paese.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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