Dopo quello sull’immigrazione, il secondo capitolo di questo speciale sulle differenze tra Trump e Obama non poteva che essere sulla politica estera, soprattutto a fronte dell’incontro tra il presidente USA e Kim Jong-un, evento già entrato di diritto nella storia, dal momento che il tycoon è il primo inquilino della Casa Bianca ad aver varcato il confine della Corea del Nord. Anche qui, piaccia o meno, il confronto con Obama appare oggettivamente impietoso, con l’amministrazione di quest’ultimo che, complice il palese appiattimento sulla Cina, abbassò ai minimi storici l’asticella del rapporto con Pyongyang, rafforzando lo spettro di un conflitto nucleare.
Diametralmente opposto lo schema di Trump che, con il perseguimento di un accordo sui dazi a Xi Jinping, ha ottenuto tre vittorie in un sol colpo: la prima sul fronte interno dove, tenendo fede per l’ennesima volta a uno dei suoi impegni elettorali, in ogni caso incasserà soldi e favorirà la produzione Made in USA; la seconda consiste senz’altro nel robusto riequilibrio nei rapporti di forza con la Cina; e la terza, come dicevamo prima, è il conseguente disgelo con il leader nordcoreano.
Certo, nel 2009 Obama vinse il Nobel per la Pace e, col senno di poi, viene da pensare che quel suo «non so se lo merito» ebbe un che di profetico, poiché da allora bombardò ben sette (7!) paesi: Afghanistan, Yemen, Pakistan, Somalia, Libia, Iraq e Siria.
Per meglio comprendere le proporzioni, è sufficiente un dato: nel solo 2016 l’amministrazione guidata da Obama ha sganciato la bellezza di 26.171 bombe, con l’impressionante media di 3 bombe all’ora h24.
Veri e propri capolavori al contrario possono essere considerati l’ISIS, la Libia, il disastro di Bengasi (cofirmato con Hillary Clinton, allora segretario di Stato) e, più in generale, le primavere arabe.
Non contento, Obama riuscì a peggiorare i rapporti con la quasi totalità dei suoi partner storici, compresi gli europei, per aver difeso l’operato della Nsa (National Security Agency, ndr) a seguito dell’esplosione dello scandalo Datagate, dichiarando candidamente – era il 17 gennaio 2014 – che «gli Stati Uniti continueranno a spiare i governi di tutto il mondo», crisi culminata con l’espulsione, da parte della Germania, del capo della Cia di stanza a Berlino.
Insomma, l’atteggiamento pragmatico di Trump, evidentemente figlio di una propensione alla gestione delle trattative in campo professionale, appare di gran lunga più efficace della retorica un tanto al chilo di Obama, che si è dimostrata pacifista fuori ma guarrafondaia dentro.
In breve, le ultime due annotazioni: dicevano che Trump sarebbe stato un fantoccio controllato da Putin, mentre ha dimostrato a più riprese il contrario, anche espellendo 60 diplomatici russi a seguito del caso Skripal; anche a livello di endorsement il confronto regge poco, perché Obama sostenne il Remain e vinse la Brexit, fece campagna per il Sì al referendum sulle riforme istituzionali del governo Renzi e vinse il No, aiutò la Clinton e vinse Trump. L’unico a farla franca è stato il francese Macron, che comunque non è che ora se la passi propriamente bene.
Biden & company, #statesereni.