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Dieci domande

Luisella Costamagna: «A molti giornalisti manca l’indipendenza dal potere»

Quello di Luisella Costamagna è un cursus honorum di assoluto rilievo che, a livello didattico, potrebbe essere tranquillamente utilizzato come case history di giornalismo crossmediale capace, cioè, di comunicare efficacemente attraverso diversi mezzi di comunicazione per diffondere un messaggio che, nel suo caso, molto spesso è una notizia o un’opinione riguardo a un tema di pubblico interesse. D’altra parte, diciamocelo chiaramente, non è che siano moltissimi i giornalisti capaci di “bucare” il video e, allo stesso tempo, in possesso di una penna parimenti emozionante e interessante; al contrario sovente avviene l’esatto opposto: chi sa scrivere viene catapultato davanti a una telecamera nel tentativo – spesso vano – di farne un personaggio televisivo così come, specularmente, si pensa che un volto noto sia sufficiente per saper confezionare articoli degni di essere letti. Vivaddio, in un’epoca in cui le meteore mediatiche vengono masticate e deglutite dal sistema come noccioline, chi ha un percorso concreto e coerente alla fine vince.

Questa doverosa premessa per dire che, con le risposte che leggerete tra poco, Luisella Costamagna ci fornirà spunti di riflessione utilissimi per chiarirci le idee in merito a ogni singola questione che le abbiamo posto, ad eccezione di una, su cui come vedrete voi stessi ha preferito glissare, ma non certo in modo banale.

Ormai, scrivere un articolo giornalistico significa, spesso, dover trovare qualcosa che non solo possa essere interessante per il lettore, ma che abbia anche gli elementi giusti a livello di immagine (foto, video e audio) per poter diventare virale sui social: questo, a suo avviso, limita o esalta la capacità di scelta del giornalista?

Il compito di un giornalista è raccontare/commentare le notizie. Il supporto di foto o filmati può essere un aiuto rispetto a quello che si sta illustrando, quindi accessorio, a meno che quel media non sia la “prova” o la notizia che si vuole raccontare (es. le foto che documentano il legame tra Salvini e Savoini del “Russiagate”, che il vicepremier nega etc.). Ma il fine resta – meglio dire: dovrebbe restare – la notizia, non certo la sua eventuale diffusione social.

Spesso si sente dire che Internet è il posto delle “fast-food news”, perché ormai gli utenti hanno poco tempo e leggono solo notizie brevi. Tuttavia, di recente, c’è chi si è inventato le “slow news” come alternativa a questo approccio. Lei da che parte sta?

Sicuramente i tempi di fruizione delle notizie si sono ridotti, a volte (non sempre) a discapito di temi che necessitano di approfondimenti più complessi ed elaborati. Non so se questo sia colpa della rete che, anzi, a volte (non sempre) offre la possibilità di inchieste ben più corpose e dettagliate di stampa e tv. Io personalmente non sto da nessuna “parte” a priori: se un argomento si presta, posso sintetizzarlo in una battuta su Twitter o in un breve commento in un programma tv; se invece ha bisogno di maggiore analisi gli dedico un pezzo su uno dei quotidiani per cui collaboro (Il Fatto Quotidiano e La Verità) o sul mio blog (sul Fattoquotidiano.it) o sulla mia pagina Facebook.

Come scriveva Walter Lippmann, le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. È evidente che il fenomeno fake news vada ben oltre le classiche “bufale” e che prolifichi a seguito della ricerca spasmodica di “like” e di visualizzazioni. Secondo lei cosa manca ai media, e ai giornalisti più in generale, per riconquistare la credibilità perduta?

Premesso che le “bufale” – ahinoi – ci sono sempre state e non sono certo un’invenzione di Internet (che, anzi, è servita anche a smascherarle a volte…) e che la produzione di fake news o racconti strumentali della realtà non è certo solo appannaggio di troll della rete, bensì anche di autorevoli quotidiani o programmi tv (in quanto tali ben più pericolosi), credo che oggi a molti giornalisti italiani manchi – non certo a tutti, perché c’è chi fa con onore e credibilità questo mestiere – una dote fondamentale: l’indipendenza dal potere.

Come detto, in Italia così come altrove, la popolarità professionale dei giornalisti (e della professione giornalistica) è ai minimi storici. Qual è, secondo lei, l’errore più grave che commettono gli operatori del settore?

Come dicevo prima, il problema secondo me è l’eccessiva sudditanza o prossimità al potere (politico in primis, che in Italia controlla tutto). I giornalisti dovrebbero essere “cani da guardia” del potere e invece sono spesso (troppo spesso) “cani da salotto”. Ripeto: non tutti, fortunatamente.

Al di là di quello che ritiene qualche politico ci pare evidente ormai, a livello globale, che il bipolarismo non sia più tra destra e sinistra, bensì tra élite di garantiti e popolo dei non rappresentati. A questo si aggiunge il paradosso tutto italiano di una democrazia orfana degli spazi in cui una classe dirigente possa nascere e crescere per formazione e non per cooptazione. Su quali basi e con quali strumenti (anche informativi) sarà possibile – secondo lei – costruire una nuova e autentica connessione tra popolo e classi dirigenti?

Ecco, questo è uno di quei temi complessi (vedi domanda 2 e risposta) che non possono essere certo sintetizzati in poche righe… per rispondere ci vorrebbe un saggio.

Come accadde in passato con la televisione, oggi sono le esigenze del Web a controllare la nostra cultura e, in Internet, si vive o si muore di click, perché garantiscono potere e profitti della pubblicità. Esiste, secondo lei, un modo per superare il dualismo Google-Facebook?

Mi ostino a vedere il positivo della rete che, al netto delle degenerazioni che certo non nego, ha però anche avvicinato le persone, superato muri, permesso condivisioni inaspettate e planetarie e offerto talvolta la possibilità di controllare un’informazione e un potere calati dall’alto. In un paese anziano come il nostro, dove la diffusione di computer e internet non è ancora capillare e ad “alta velocità” e dove ci si continua ad informare in larghissima misura attraverso la tv generalista, be’, mi sembra che i pericoli non siano Facebook e Google… Per lo meno, non solo.

Grazie a Snowden sappiamo che Orwell aveva ragione e che ogni singola azione che compiamo online viene intercettata, monitorata e catalogata. Questo significa controllo, che a sua volta è un sensazionale strumento di potere aumentato dalle “censure” imposte grazie ai luoghi comuni politicamente corretti. Quanto di questo “totalitarismo tecnologico”, ritiene che sia oggettivamente colpa di chi dovrebbe informare correttamente, ovvero dei giornalisti?

Come per le bufale, anche il “controllo” sui nostri gusti/consumi/opinioni non nasce certo online. Francamente preoccupa e infastidisce di più l’uso che viene fatto dei miei dati sensibili da parte di gestori di telefonia, luce, gas, prodotti finanziari per fini commerciali. E che ti sfiancano – se non truffano – al vecchio citofono, telefono di casa o cellulare.

Una delle suggestioni più frequenti tra gli addetti alla informazione è quella “robot journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. In prospettiva, lo vede più come un’opportunità o una minaccia?

Non la vedo proprio come possibilità: la produzione e la verifica delle notizie non potranno che essere sempre gestite dall’uomo. Speriamo serio, competente, preparato e indipendente. Altrimenti meglio un robot.

Secondo lei esiste una anche remota possibilità che il giornalismo – inteso come istituzione – possa scomparire per essere sostituito da un nuovo modo di trasmettere la conoscenza alle persone magari in maniera “meccanica”, o comunque con la definitiva affermazione del principio di induzione che attualmente gli algoritmi utilizzano per “selezionare” le notizie al posto nostro?

Premesso che non considero il giornalismo un’“istituzione” (termine che mi lascia un retrogusto di casta cui mi sono sempre ribellata), credo non sarà possibile: cambieranno forse i metodi, gli strumenti di produzione e diffusione delle notizie, ma chi accenderà i riflettori su una determinata realtà e la racconterà al mondo non potrà che essere umano e dovrà “consumare le scarpe”. Così come i pc o i kindle o la computer grafica non hanno certo fatto scomparire scrittori, registi, autori e conduttori tv. La creatività, l’idea (se c’è) è sempre nelle nostre teste e nelle nostre mani.

Secondo lei come leggeremo le notizie tra 5 anni?

Chissà se le “leggeremo” ancora. Forse le vedremo o le sentiremo. Di sicuro ci arriveranno da ogni parte, magari anche dal frigo, anche se non lo vogliamo.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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