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Dieci domande

Emilio Carelli: «Il compito di un giornalista non è quello di essere popolare ma di scrivere e diffondere le notizie»

Potremmo tranquillamente definirlo l’archetipo del giornalismo televisivo di casa nostra, perché la carriera di Emilio Carelli comincia nel 1980, quando fece il suo ingresso in Fininvest diventando inviato e redattore di svariati programmi giornalistici di Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Poi, da lì, visse da protagonista ogni singola tappa di avvicinamento che Mediaset compì in direzione delle news, sfociando in Studio Aperto prima (correva l’anno 1991) e nel TG5 poi, a un anno di distanza. Anticipando, come sempre, i tempi, nel 2000 ebbe l’intuizione di fondare (diventandone direttore) il TgCOM per poi, appena tre anni dopo, lasciare la sua creatura dando però immediatamente vita a un’altra: quello SkyTg24 di cui rimane direttore fino al 2011. Altro balzo in avanti nel tempo e arriviamo al 2018, anno in cui diviene vicepresidente della Fondazione Italia USA e guadagna l’elezione a Deputato del Movimento 5 Stelle.

Ormai, scrivere un articolo giornalismo significa, spesso, dover trovare qualcosa che non solo possa essere interessante il lettore, ma che abbia anche gli elementi giusti a livello di immagine (foto, video e audio) per poter diventare virale sui social: questa ulteriore problematica, a suo avviso, limita o esalta la capacità di scelta del giornalista?

Il giornalismo è cambiato, anzi è in continua evoluzione. Il potere di una prova (una foto, un audio, un video) è sempre stato determinante nella costruzione di una notizia e per la notiziabilità tout court. Oggi come ieri. È naturale che in un ambiente come quello dei social, dove l’attenzione dell’utente finale è estremamente polverizzata a causa della grande mole di dati a disposizione, gli ‘elementi grafici’ possono portare un valore aggiunto significativo per la viralità di un contenuto. Secondo me non c’è molto da discutere: il giornalista è sempre super partes e dovrebbe esserlo anche nella scelta di cosa raccontare, a prescindere dalla sua capacità di suscitare emozioni tramite una foto o un video.

Spesso si sente dire che Internet è il posto delle “fast-food news”, perché ormai gli utenti hanno poco tempo e leggono solo notizie brevi. Tuttavia, di recente, c’è chi si è inventato le “slow news” come alternativa a questo approccio. Lei da che parte sta?

Ogni giorno siamo sottoposti ad una quantità elevatissima di informazioni; i new media hanno diminuito notevolmente il gap temporale tra l’avvenimento di un fatto e la sua costruzione in termini di notizia.  Nel tempo questo ci ha portato ad essere sempre più multitasking, ad elaborare in tempi più rapidi una maggior quantità di informazioni, ma sicuramente anche a polverizzare la nostra attenzione in favore di una maggior liquidità cognitiva. Le fast-food news non sono mai auspicabili se per queste intendiamo una lettura superficiale ed effimera dei fatti: soffermarsi al titolo di una notizia è insano e non concede spazio a nessun arricchimento personale, anzi deforma la verità e rende nulla la mission del giornalista di informare. Allo stesso tempo dobbiamo essere consapevoli che l’epoca in cui viviamo ha una temporalità limitata: dobbiamo sempre più essere alfabetizzati medialmente a recepire le informazioni in tempi rapidi, ma approcciandoci con la necessaria concentrazione alla notizia.

Come scriveva Walter Lippmann, le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. È evidente che il fenomeno fake news vada ben oltre le classiche “bufale” e che prolifichi a seguito della ricerca spasmodica di “like” e di visualizzazioni. Secondo lei cosa manca ai media, e ai giornalisti più in generale, per riconquistare la credibilità perduta?

Secondo la mia opinione in questa fase il giornalista ha e sta riconquistando l’aurea perduta negli ultimi anni. Su internet chiunque può scrivere qualsiasi cosa e nascondersi dietro un nickname, un sito pirata; proprio per il dilagare delle fake news è necessario ancora più di ieri che l’utente sia alfabetizzato ad una lettura consapevole e approfondita delle notizie. Per fare questo bisogna potersi affidare a delle fonti autorevoli che siano in grado di garantire notizie verificate: è qui che interviene il giornalista che ha proprio il compito di accompagnare il lettore, grazie al rigore nella ricerca delle sue fonti.

Come detto, in Italia così come altrove, la popolarità professionale dei giornalisti (e della professione giornalistica) è ai minimi storici. Qual è, secondo lei, l’errore più grave che commettono gli operatori del settore?

Il compito di un giornalista non è quello di essere popolare ma di scrivere e diffondere le notizie. È questo l’obiettivo principale: informare!

Al di là di quello che ritiene qualche politico ci pare evidente ormai, a livello globale, che il bipolarismo non sia più tra destra e sinistra, bensì tra élite di garantiti e popolo dei non rappresentati. A questo si aggiunge il paradosso tutto italiano di una democrazia orfana degli spazi in cui una classe dirigente possa nascere e crescere per formazione e non per cooptazione. Su quali basi e con quali strumenti (anche informativi) sarà possibile – secondo lei – costruire una nuova e autentica connessione tra popolo e classi dirigenti?

Il problema non si pone per il Movimento 5 Stelle: da sempre un movimento politico che coinvolge a tutti i livelli i cittadini, consentendo l’accesso alla politica a tutti.

Come accadde in passato con la televisione, oggi sono le esigenze del Web a controllare la nostra cultura e, in Internet, si vive o si muore di click, perché garantiscono potere e profitti della pubblicità. Esiste, secondo lei, un modo per superare il dualismo Google-Facebook?

Superare il dualismo Google-Facebook significa poter creare una cooperazione internazionale tra gli Stati per evitare monopoli che sono contrati a qualsiasi concetto di pluralismo. Le concentrazioni di potere, storicamente, non hanno mai fatto bene a nessuno!

Grazie a Snowden sappiamo che Orwell aveva ragione e che ogni singola azione che compiamo online viene intercettata, monitorata e catalogata. Questo significa controllo, che a sua volta è un sensazionale strumento di potere aumentato dalle “censure” imposte grazie ai luoghi comuni politicamente corretti. Quanto di questo “totalitarismo tecnologico”, ritiene che sia oggettivamente colpa di chi dovrebbe informare correttamente, ovvero dei giornalisti?

Quella orwelliana era una prospettiva decisamente distopica, ma in parte alcune delle previsioni dello scrittore britannico si sono avverate, come appunto quella del monitoraggio costante delle nostre azioni quotidiane, che oggi avviene sul web. Il problema della privacy è uno dei temi più scottanti che riguarderanno sempre di più in futuro tutto il mondo dell’informazione e della comunicazione e che quindi sarà sempre più al centro dell’attenzione mondiale.

Una delle suggestioni più frequenti tra gli addetti alla informazione è quella “robot journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. In prospettiva, lo vede più come un’opportunità o una minaccia?

Sono estremamente contrario a qualsiasi riflessione a favore dell’automatismo di un mestiere che, come quello giornalistico, è consentito grazie al lavoro quotidiano di persone umane, con una testa pensante, un pensiero personale, un lavoro di ricerca e di indagine e di critica che nessun robot potrà mai sostituire. Scrivere è un lavoro delicato, non in quanto tale ma perché significa trasmettere e comunicare un pensiero ad altre persone. Le stesse persone che così possono avere l’opportunità di partecipare ad una dialettica democratica e costruirsi un’opinione personale. Ai robot lasciamo i lavori manuali.

Secondo lei esiste una anche remota possibilità che il giornalismo – inteso come istituzione -possa scomparire per essere sostituita da un nuovo modo di trasmettere la conoscenza alle persone magari in maniera “meccanica”, o comunque con la definitiva affermazione del principio di induzione che attualmente gli algoritmi utilizzano per “selezionare” le notizie al posto nostro?

Assolutamente no!

Come leggeremo le notizie tra 5 anni?

Tra cinque anni continueremo a leggere le notizie sui nostri smartphone, tablet, computer e credo che continueremo a leggerle anche grazie al formato cartaceo, con una prospettiva che già oggi è diversa dal passato. Quando leggiamo le notizie sul quotidiano in edicola, più che essere informati sui fatti leggiamo commenti ed editoriali di giornalisti, politologi, esperti del settore. Insomma, approfondiamo i fatti, ci creiamo un’opinione. Non è importante con quale mezzo continueremo a leggere tra cinque anni. Continueremo a leggerle innanzitutto, in un modo o nell’altro. Siamo tutti consapevoli che senza giornalismo e senza informazione non c’è democrazia, non c’è pluralismo e non c’è libertà!

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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