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Renzi, l’erede di Fini

Renzi e Fini non lo sanno, ma sono arrivati entrambi sull’orlo del precipizio a braccetto con le stesse compagne: Incoerenza e Arroganza. Due storie, le loro, che per quanto possano apparire completamente differenti, in alcuni passaggi si somigliano a tal punto da sembrare farina del medesimo sacco, ultimo dei quali è l’intervista attraverso cui l’ex rottamatore ha aperto all’ipotesi di un governo con il Movimento 5 Stelle, smentendo per l’ennesima volta se stesso e quanto affermava a gran voce dopo aver perso le elezioni politiche di un anno e mezzo fa:

Giravolta che fa il paio con quella che, in occasione del referendum costituzionale, sortì principalmente due effetti, cioè buttare a mare l’enorme consenso che fino a quel punto si era costruito, e ricompattare attorno al “No” l’intero fronte dei suoi avversari, esterni e interni: un centrodestra allora diviso e moribondo, il Movimento 5 Stelle, nonché le correnti a lui avverse presenti all’interno del suo stesso partito:

Ora torniamo alle similitudini con quello che, per molti aspetti, potremmo tranquillamente definire il predecessore di Renzi, ovvero quel Gianfranco Fini a cui è riuscita un’impresa senza precedenti, ovvero passare dalla prospettiva di agguantare il timone del centrodestra dopo un ventennio di praticantato al fianco di Berlusconi, ad un umiliante 0,4% alle elezioni politiche del 2013. Ma vediamo nel dettaglio quali sono gli episodi e i tratti comuni di questi due leader politici.

La scalata al partito

La Fiamma sta alla Margherita così come Almirante sta a Rutelli e Rauti sta a Bersani. Proporzione oggettivamente impropria, ma utile a esemplificare la consecutio degli eventi e il loro parallelismo: così come l’inizio della carriera politica di Gianfranco Fini fu segnato dalla figura di Giorgio Almirante (che lo scelse personalmente come proprio successore), quello di Matteo Renzi fu senz’altro influenzato da Francesco Rutelli. Poi la presa del partito: prima di diventare capo indiscusso del Movimento Sociale, dal 1987 al ’90 il giovane Fini dovette vedersela con Rauti e i suoi in ben due congressi e un comitato centrale; allo stesso modo il giovane Renzi vinse il duello alle primarie con l’esperto Bersani soltanto al secondo round, nel 2013, dopo la sconfitta subita l’anno prima.

Fini “picconatore” e Renzi “rottamatore”

Era il 1992, l’anno in cui l’inchiesta di Tangentopoli cambiò per sempre i connotati alla classe politica del paese, facendo emergere l’imponente giro di corruzione e malaffare divenuto prassi per i partiti che facevano parte del cosiddetto “Arco costituzionale”, ovvero tutti tranne il MSI, tenuto fuori da qualsiasi alleanza di governo a causa della continuità ideale con il fascismo di Benito Mussolini. La storia ci dirà che quell’emarginazione fu una vera e propria benedizione per la destra, che infatti si potè presentare dinnanzi agli elettori come l’unico partito – insieme alla Lega Nord di Umberto Bossi – “con le mani pulite”, facendo il pieno di voti. In quello stesso anno, per la campagna elettorale delle elezioni politiche che si tennero il 5 e il 6 di aprile, Gianfranco Fini fece suo l’appellativo di “Picconatore” che venne attribuito all’allora Capo dello Stato Francesco Cossiga, utilizzandolo anche come slogan della campagna elettorale: “Ogni voto una picconata”.

 

Vent’anni dopo, Matteo Renzi conquista la ribalta rivendicando con orgoglio un appellativo molto simile a quello preso in prestito da Fini: rottamatore. La rottamazione prima della vecchia classe dirigente del PD, e poi di qualsiasi altra cosa puzzasse di establishment, divennero la vera e propria ragione sociale di Renzi, che infatti in parte riuscì nell’impresa di fare sua una delle battaglie fondamentali dei 5 Stelle, incamerando nelle proprie vele buona parte di quel vento di cambiamento che anche in Italia cominciava a soffiare sempre più forte.

L’abbandono dei temi tradizionali

Tra i tanti, uno degli episodi che lacerarono irrimediabilmente il rapporto tra Fini e il proprio popolo fu la proposta di concedere il diritto di voto agli immigrati anche non in possesso della cittadinanza italiana, un’idea talmente balzana che nemmeno la sinistra, negli anni a venire, l’ha mai più rilanciata. Il secondo accadde sul finire dello stesso anno – il 2003 – quando durante una visita in Israele definì il fascismo “male assoluto”, scatenando un vero e proprio pandemonio nella base di un partito che aveva sì metabolizzato la storicizzazione del Ventennio, ma che non per questo accettava di vedersi imposta una linea storicamente opposta. Quanto a Renzi, anche lui ha contribuito a far disamorare molti militanti di sinistra scagliandosi ripetutamente contro i sindacati, o con provvedimenti oggettivamente agli antipodi come l’abolizione dell’art. 18 per i neoassunti e l’atteggiamento nei confronti di banche ed establishment finanziario.

Disposti a dire tutto e il contrario di tutto

Il doppio carpiato con avvitamento eseguito ieri da Renzi è assolutamente speculare a quello compiuto da Fini nel 2010, poi culminato con il vosto di fiducia che Berlusconi ottenne per soli tre voti. Al netto di circostanze e valutazioni politiche, rimane il fatto che dopo un’intera carriera passata a dirsi “contro ogni ribaltone”, l’allora Presidente della Camera fece l’esatto contrario, inimicandosi ulteriormente quella parte di elettori che continuavano ad avere fiducia in lui.

Scelte politiche sbagliate

Ovvio che con i se e i ma non si vada da nessuna parte, è però evidente che entrambi abbiano toppato nella fase più importante della loro partita: Renzi, come detto sopra, personalizzando la campagna referendaria del 2016, e Fini non abbandonando la presidenza della Camera dopo aver fondato Futuro e Libertà.

Epilogo

Per concludere, siamo di fronte a due storie da cui possiamo trarre diversi insegnamenti. Il primo è che la coerenza paga sempre, in politica così come nella vita o nel business: la storia è piena di personaggi che hanno vinto perché sono rimasti fedeli alle proprie convinzioni, a cominciare da un certo Steve Jobs, giusto per citare un esempio; di converso l’incoerenza è fatale, perché rompe il rapporto di fiducia che abbiamo creato con i nostri interlocutori, a maggior ragione nell’epoca del Web, dove qualsiasi contenuto è sempre alla portata di chiunque, indipendentemente dai media mainstream. Il secondo riguarda l’arroganza, che è sicuramente un altro dei punti che accomunano Gianfranco e Matteo che, a causa del proprio atteggiamento – a partire dal vivere i rispettivi partiti come un peso – sono progressivamente passati dall’empatia all’antipatia, fino a diventare addirittura invisi a milioni di elettori. Il terzo è la sindrome da “cerchio magico”, un tratto che accomuna non soltanto Renzi e Fini ma più o meno tutti i leader contemporanei, che una volta giunti al potere amano circondarsi di uno stuolo di leccaculi che ne tessono continuamente le lodi anche quando le cose vanno male, dando sempre la colpa a qualcun altro. Peccato, però, che questo sia uno dei modi più efficaci per perdere contatto con la realtà, sia dentro che fuori da palazzo.

Detto questo, consiglio vivamente a chi coltiva ambizioni da leader di prendere appunti.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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