Ieri la platea del Meeting di Rimini è riuscita a farmi vivere qualcosa che un algoritmo non potrà mai provare: emozioni. Tutt’al più, però, possono controllare o indurre quelle che viviamo noi umani, ovviamente con fini che spesso e volentieri di etico hanno ben poco. È questo lo spirito con cui sono intervenuto al dibattito dal titolo “Con quale etica creiamo gli algoritimi?” al quale, oltre al sottoscritto, hanno preso parte Gigi Gianola (Direttore generale di Cdo), Carlo Bagnoli (docente di Innovazione Strategica all’Università Ca’ Foscari) e Paolo Benanti (docente di Teologia Morale e Bioetica all’Università Gregoriana).
Venti minuti nel corso dei quali ho tentato di trasmettere una serie di spunti di riflessione che partissero anzitutto dal contesto nel quale ci troviamo, soprattutto in relazione a come il nostro vivere digitale invitabilmente condizioni anche l’analogico: un tutt’uno in cui la nostra memoria è passata dall’essere individuale a condivisa, e quindi contaminata da dati immessi da terzi con l’obiettivo di manipolare la nostra percezione della realtà e, quindi, anche le nostre azioni. Quelle “vere”, che compiamo nel mondo reale, non su Facebook o Instagram.
Mi riferisco, giusto per fare qualche esempio, alle opinioni che maturiamo sulla politica, a come decidiamo di spendere i nostri soldi, alle persone che scegliamo di frequentare, alla scuola che sceglieremo per i nostri figli, al libro che cominceremo a leggere questa sera. D’altra parte, è cosa nota che l’obiettivo di piattaforme come Google e Facebook è quello di tenerci connessi il più possibile per – letteralmente – vendere la nostra attenzione a chi le paga per raggiungerci con i suoi messaggi pubblicitari. Non siamo persone, ma tasselli di un determinato target.
In quest’ottica, fa certamente effetto analizzare i dati con cui Agcom certifica come gli utenti italiani accedano alle notizie non direttamente dai siti dei giornali, ma da fonti algoritimiche, cioè social e aggregatori come Google News, che le fanno arrivare sui nostri display o alle nostre orecchie (vedi assistenti intelligenti come Alexa) seguendo criteri puramente commerciali.
La sfida di Orwell va esattamente in questa direzione, ovvero quella di un ecosistema composto da diversi elementi che possano contribuire a riequilibrare il rapporto tra informazione e comunicazione, attraverso la qualità dei contenuti, che è insieme il primo deterrente alle fake news e il veicolo migliore per conferire valore al nostro brand.
Ora, così come i tecno-luddismi sono da considerarsi dannosi, oltre che fuorvianti, allo stesso modo è necessario favorire il propagarsi di un approccio lucido, consapevole e robustamente strutturato su basi quali Identità, Spiritualità e Qualità, per riaffermare il concetto che l’algoritmo è creazione umana e non Creato divino, mezzo e non fine, contenitore e non contenuto. Questa è la sfida contemporanea tra eccellenza e mediocrità, tra omologazione e libertà, tra Fede e vacuità. La scelta è tra l’assuefazione al modello di società in cui i ragazzi sognano di diventare influencer e la battaglia – da combattere tutti, in prima persona – per garantire continuità alla nostra Civiltà. Gli algoritmi potranno diventare i nostri migliori alleati o i nostri nemici peggiori, dipenderà da noi.