Il 26 agosto dello scorso anno ci lasciava John McCain. Il senatore dell’Arizona è stato un uomo delle istituzioni, un prigioniero di guerra, nonché candidato alla presidenza nel 2008.
Proprio nel 2008, dopo 25 anni fra Camera e Senato, vinse le primarie repubblicane e si candidò alla presidenza, perdendo, contro Barack Obama: che attaccò ferocemente sul piano politico ma non si abbassò mai a denigrarlo attraverso le fake news di coloro che sostenevano che l’allora senatore dell’Illinois nato alle Hawaii non era americano. In tanti nel partito repubblicano non gli perdonarono infatti di aver impedito ad una sua sostenitrice di definire Obama un “arabo musulmano”. “Lei si sbaglia signora” le tolse subito il microfono McCain. “Il mio avversario è un padre di famiglia, un americano per bene”.
Emblematico fu il funerale del Senatore: gli ex presidenti George W. Bush e Barack Obama tennero un elogio funebre degno di un collega, Donald J. Trump dalla Casa Bianca non batté ciglio, non disse una parola, si limitò solo a qualche osservanza religiosa come spetta agli uomini che hanno servito e reso l’America grande./blockquote>
Da allora, sia per chi era un avversario di McCain, sia per chi era un suo leale amico, l’aula del Senato è apparsa più buia, meno guidata, come se il senso delle istituzioni avesse deciso di andare via. Emblematico è Lindsey Graham, il senatore in cerca di rielezione della Carolina del Sud nel 2020, appare ogni giorno meno sicuro, da quando McCain è morto.
Il suo seggio, in 365 giorni, è passato da Jon Kyl a Martha McSally (che ha perso l’elezione per il seggio di Jeff Flake), concedendo l’ambizione ai democratici di puntare un seggio che da 30 anni portava un solo nome. Probabilmente il governatore dell’Arizona Doug Ducey, visto che non è possibile lasciare vuota quella sedia, per rendere onore ad un servitore dello Stato, avrebbe dovuto nominare la moglie Cindy. Solo allora, forse, avrebbero realmente omaggiato un uomo che manca alla politica ma di più al popolo americano.