Una coppia appena andata in frantumi, due padri “bolliti” che cercano di convincere i rispettivi figli ad accasarsi con un matrimonio di comodo e un amore che, nonostante tutto, continua a covare sotto la cenere. Parliamo di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, a cui tocca vedersela con Beppe Grillo e Silvio Berlusconi, due ex leader ormai logori e imbolsiti che tentano disperatamente di rimanere aggrappati a un ruolo da protagonisti. Il primo costringendo Di Maio a un’alleanza contronatura con il PD e il secondo auspicando, un giorno sì e l’altro pure, un ritorno del figliol prodigo Salvini nella «casa comune» del centrodestra.
Peccato, però, che i diretti interessati non facciano assolutamente nulla per nascondere la propria riluttanza ad accettare tali prospettive che, sia pur a causa di motivi diversi, sarebbero una sconfitta per entrambi gli ex vicepremier.
Prendiamo Di Maio, che fino all’altro giorno usava il Partito Democratico come un pungiball mentre oggi si vede costretto a doverci trattare per un governo che giocoforza nascerà come una sorta di zombie rianimato unicamente per assolvere a qualche impopolare diktat imposto dall’establishment sovranazionale, per poi tornarsene sottoterra, alla sua vita da morto. Per Di Maio sarebbe la fine, e lui di questo è perfettamente consapevole.
Poi c’è Salvini, a cui viene l’orticaria al pensiero di doversi sedere al tavolo e condividere le scelte con Berlusconi, Meloni e rispettivi cerchi magici. Uno schema su cui è stata plasmata un’esperienza politica che, in termini di risultati concreti, è stata oggettivamente fallimentare, e questo Matteo Salvini lo sa perfettamente.
Due storie che si stagliano sullo sfondo di uno scenario politico completamente mutato, con Lega e MoVimento 5 Stelle che continuano a rappresentare la maggioranza degli italiani, nonché un fronte che più che populista definirei popolare, cioè alternativo a tutto ciò che è élite, pensiero unico e mainstream.
In linea di principio sarebbe dunque fisiologico che i due cominciassero a lavorare a un manifesto fatto di poche proposte, coraggiose e incisive, con il quale presentarsi di fronte agli italiani il prima possibile e in coalizione, dicendo chiaramente che il partito che prenderà più voti esprimerà il premier mentre al secondo toccherebbe il vice. Così facendo, nonostante l’osceno sistema elettorale, restituirebbero agli elettori la facoltà di decidere da chi farsi governare e si garantirebbero la prospettiva di una legislatura con i numeri necessari per fare le riforme di cui questo paese ha più bisogno che mai.
Ovvio, perché ciò sia possibile Di Maio dovrebbe avere il coraggio di far saltare il banco, provocando un cortocircuito anche all’interno del M5S, che dovrebbe poi essere in grado di gestire. È un rischio, certo, ma almeno si riscatterebbe nei confronti di un’opinione pubblica che, nel caso di accordo con il PD di Renzi e Zingaretti, sarebbe pronta a riservargli un posto nel nutritissimo pantheon dei voltagabbana insieme a personaggi del calibro di Razzi e Scilipoti. Insomma, roba per stomaci forti.
Nel caso di Salvini le difficoltà sarebbero di gran lunga minori, anche perché a differenza di Di Maio egli può contare su un partito di cui è il leader incontrastato.
Cosa succederà? Lo vedremo, certo è che in una situazione caratterizzata da cotanta incertezza, sarebbe auspicabile che la palla ritorni a noi cittadini e che, una volta tanto, si creino le condizioni per far sì che chi vince le elezioni vada al governo e chi perde se ne stia all’opposizione. So che alle nostre latitudini possa sembrare strano, ma la vera democrazia è questa.