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Politicamente corretto

Come funziona la censura di Facebook

2,38 miliardi di persone sono iscritte a Facebook, mentre su Google vengono effettuate 5,7 miliardi di ricerche al giorno: del duopolio di questi due colossi abbiamo parlato diffusamente in diverse circostanze, soprattutto riguardo a quanto i loro algoritmi incidano sulla scelta dei contenuti che leggiamo e, di conseguenza, sulle opinioni che maturiamo.

Che Google e Facebook condizionino le nostre esistenze è indubbio, in alcuni casi decidendo arbitrariamente cosa farci vedere e in altri arrogandosi il diritto di scegliere cosa non debba essere visto, cancellando qualsiasi contenuto che non sia rispettoso delle loro misteriose linee guida.

Si tratta di un criterio adottato praticamente ovunque, tant’è che nei giorni scorsi, quando Facebook bloccò pagine e profili di esponenti di CasaPound, scrissi un articolo in cui illustrai l’ordine esecutivo messo in cantiere da Trump per affrontare la questione relativa alla censura di opinioni perpetrata dalle BigWeb Companies perlopiù ai danni di persone e movimenti dell’area conservatrice e sovranista.

Ma non soltanto, perché Tulsi Gabbard, rappresentatante al Congresso USA nonché candidata alla nomination democratica per le presidenziali del 2020, ha chiesto un risarcimento di 50 milioni di dollari a Google, sostenendo che abbia violato la sua libertà di parola sospendendo temporaneamente il suo account.

Nessuna chiarezza

Fatto sta che Facebook e Google non chiariscano né le loro linee guida né i processi decisionali che determinano quali contenuti abbiano diritto di cittadinanza e quali invece debbano essere rimossi. Questa mancanza di trasparenza, unitamente alle dichiarazioni di alcuni manager di queste aziende, sono la dimostrazione che certe decisioni vengono prese e attuate con un approccio parziale, oltre che unilaterale.

Il trucco delle regole vaghe

Entrambe le aziende chiedono a utenti e inserzionisti di aderire a tutta una serie di standard pubblicitari che lasciano spazio a qualsiasi interpretazione. Per esempio, Google vieta “contenuti inappropriati” come “intimidazioni” e “discriminazione”, ma non dice nulla sul significato di queste cose nella pratica.

Quando un algoritmo prende di mira un contenuto (di qualsiasi formato esso sia: testo, link, foto o video) o un annuncio, lo passa ai revisori in carne e ossa che, nel caso in cui rifiutino l’annuncio, forniscono pochissime spiegazioni – non riuscendo, ad esempio, a chiarire perché un contenuto sull’immigrazione o sull’aborto sia considerato “inappropriato”. Di conseguenza, chi gestisce campagne di comunicazione che toccano argomenti politici non sa come progettare annunci che soddisfano gli standard, aspetto che limita la gamma di argomenti a sfondo politico su cui sia possibile intervenire.

Ovvio che mantenere regole vaghe consenta a Facebook e Google in interpretarle a loro piacimento. Da alcune testimonianze – rigorosamente off the records – di dipendenti addetti al controllo dei contenuti “sospetti”, emerge che prima regola sia sostanzialmente una: nessuna spiegazione. Questo spiega la pressoché totale impenetrabilità delle piattaforme nel momento in cui la sponsorizzazione di un post venga rifiutata o, peggio ancora, sia rimosso un contenuto o una pagina.

Consulenti dedicati, ma senza alcun potere

Al netto di alcuni addetti ai lavori, in pochi sanno che agli inserzionisti più importanti Facebook e Google assegnano consulenti dedicati che siano in qualche maniera “aderenti” con le idee professate dal cliente che affiancano. Nel 2016 conobbi personalmente due di questi consulenti, per la precisione uno di quelli che erano stati assegnati alla campagna di Hillary Clinton e uno di quelli che seguì la comunicazione di Trump: pur pesando ogni singola parola, entrambi mi confermarono che potevano limitarsi ad alcuni consigli specifici sulle singole campagne, ma che a loro non era delegato alcun potere decisionale.

Qualcuno fermerà la censura?

Lo scorso novembre Mark Zuckerberg creò una commissione di controllo indipendente con il compito di prendere decisioni sulla moderazione dei contenuti, analizzando i risultati provenienti da tutto il mondo. Risultati che sono serviti per realizzare un rapporto pubblicato a giugno che, però, appare perfettamente in linea con la vaghezza delle “linee guida” di cui parlavamo prima: nessuna delle questioni importanti è stata affrontata con chiarezza, mentre appare evidente come la linea continui a essere quella di censurare sia chi non si adegua a temi e toni del “politicamente corretto”, sia chi decide di affrontare a viso aperto la battaglia contro la censura e quindi in difesa della libertà di opinione e di parola.

Per quanto riguarda l’Italia a inizio settembre l’amministratore della pagina Facebook di Marcello Veneziani è stato bloccato a causa di un articolo pubblicato 15 mesi prima e, nei giorni scorsi, la piattaforma di Zuckerberg ha rimosso alcuni articoli pubblicati dal quotidiano online Il Secolo d’Italia riguardanti la chiusura dei profili di CasaPound. Guarda un po’ che caso.

Se negli Stati Uniti quattro senatori repubblicani (Josh Hawley, Ted Cruz, Kevin Cramer e Mike Braun) hanno scritto a mark Zuckerberg chiedendogli spiegazioni riguardo alla censura di alcuni contenuti pubblicati dall’associazione pro-vita Live Action e il presidente Trump minaccia queste grandi piattaforme puntando forte sul diritto di libertà di parola garantito dalla Costituzione, alle nostre latitudini il tema viene affrontato con la consueta partigianeria, con gran parte della sinistra che esulta per la chiusura delle pagine del movimento di estrema destra, senza rendersi conto che, così facendo, si fanno portatori di un approccio alla questione che tutto è fuorché democratico, anche perché presto potrebbe toccare anche a qualcuno di loro.

Arrivati a questo punto ci domandiamo cos’altro debba accadere perché la questione venga affrontata con la serietà e la terzietà che dovrebbero competere a chi si è assunto l’onore e l’onere di rappresentarci presso le Istituzioni. Probabilmente, come spesso accade in Italia, perché qualcosa accada non ci rimane che aspettare il blocco della pagina di uno dei leader dei principali partiti, anche se siamo pronti a scommettere che se toccasse a qualcuno del centrosinistra il coro dell’indignazione si leverebbe alto e forte, mentre qualcosa mi dice che se bloccassero Salvini o la Meloni in molti si spellerebbero le mani.

Tanto vale cominciare a pensarci subito, magari guardando ad alternative veramente libere.

L’intervento di Salvini

A poche ore dalla pubblicazione di questo articolo, Matteo Salvini entra a gamba tesa sulle censure proprio da una diretta Facebook: «In tanti mi state scrivendo che c’è Facebook che sta chiudendo delle pagine senza motivi particolari. Se pensano di imbavagliare qualcuno hanno sbagliato a capire» dice, per poi sfiorare la questione che ho posto in chiusura: e se chiudessero la sua pagina? «Questo account si sta avvicinando ai quattro milioni. Grazie perché siete un tesoro. Mi tengo stretta la vostra testa e il vostro cuore e per il momento lascio agli altri le poltrone».

 

 

articolo aggiornato alle 18:12 del 15 settembre 2019

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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