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11 settembre

Media e terrorismo (2): l’11 settembre fa saltare il “filtro”

Continua la pubblicazione dell’intervento di Luca Rigoni pubblicato su “Comprendere il terrorismo” a cura di Ranieri Razzanti (Ed. Pacini Giuridica) su gentile concessione dell’editore.

Molti testi si sono occupati, e da parecchio tempo ormai, del ruolo del ‘gatekeeper’, del guardiano, che i media hanno svolto e assolto nei confronti della pubblica opinione. Giornali come cani da guardia del Potere, è la vulgata più ovvia ed eroica e persino banale; ma anche come guardiani e garanti dell’informazione presso i loro lettori. Un ruolo – fino a non troppi anni fa – non scavalcabile, quello del filtro. Non c’erano by-pass possibili, se non quelli di una informazione minoritaria, alternativa, non “timbrata”. O attinta, in certi casi, dall’estero.

Per informare, aggiornare – o guidare, manipolare, confondere, vedete voi – i lettori e gli spettatori bisognava passare attraverso quei rubinetti, attraverso quei filtri. Un diaframma – o un sipario – che poteva alzarsi o calare: ecco uno dei ruoli del giornalismo – con le sue responsabilità, e astuzie, e servilismi, e ammiccamenti – nei confronti della politica e del Palazzo. Ecco uno dei ruoli del giornalismo – con le sue responsabilità, e astuzie, e servilismi, e ammiccamenti – nei confronti del pubblico. Un ruolo, comunque lo si giudichi, centrale. Decisivo. Il sipario fra lo spettacolo del mondo e il pubblico in platea.

Vale, valeva, questo ruolo, di filtro, o di sipario o di cane da guardia e insieme guardiano, non solo per la comunicazione della politica. O dell’economia. O della cultura. (Del resto, è stato il ruolo dell’editoria tour court: c’è stato un tempo nel quale i libri si pubblicavano solo tramite un editore, e la gara era quella a cercare il migliore editore su piazza, un “timbro” in più, un salto culturale e sociale). Ma anche per la comunicazione, come si è accennato, del terrorismo. E delle guerre.

Quanti polveroni, quante polemiche, sul ruolo dei reporter di guerra: o troppo schierati, o troppo poco, o non abbastanza patriottici, o troppo contaminati, anche involontariamente, dal convivere con le truppe. Strali sugli “embedded”: militarizzati, quindi di parte, sottoposti a censura, privi di una visione del conflitto a 360 gradi – al peggio: propagandisti. Di Hemingway, quando avanzava verso Parigi insieme con le truppe americane, non si era mai detto. Nemmeno quando conquistò da solo – come disse – il bar del Ritz. Nessuno se lo sarebbe permesso; di più, nessuno se lo sarebbe sognato.

QUANDO CAMBIA LA SITUAZIONE?

L’11 settembre 2001, per scegliere una data chiave, ma non uno spartiacque nonostante l’eccezionalità, passa ancora attraverso i media tradizionali. Tutti incollati al televisore. Le dirette, gli speciali. A produrli o a vederli. E poi sui titoli cubitali dei giornali, il 12 settembre. Anche la comunicazione del terrorista numero uno (allora) passa attraverso testate e redazioni. Quindi attraverso il filtro. Dopo l’attacco, girarono sui media mondiali le interviste d’archivio a Osama Bin Laden. Lui col kalashnikov sullo sfondo la più gettonata.

Immaginiamocelo oggi, l’attacco alla Torri gemelle. Passerebbe subito, senza dover dislocare sul posto troupe o telecamere e mezzi per l’invio via satellite, su Twitter. Miliardi e miliardi di immagini, video amatoriali, foto, testimonianze, voci a disposizione sull’hashtag #twintowers. Anche da dentro il World Trade Center. Il Crollo in diretta. La Morte in diretta.

Un flusso inarrestabile e – attenzione – gratuito per i media tradizionali. Tutto free. E immaginiamoci come potrebbero essere le dirette, oggi: giornate intere di video sempre live a disposizione, con conduttori e ospiti in studio a commentare, e i collegamenti di rito – sempre meno significativi – con gli inviati sul posto. Qualcosa di – letteralmente – mostruoso. E, sempre per i media tradizionali – tv generaliste ma anche reti all news -, a costi di produzione bassissimi. Anche il filtro, il gatekeeping, in diretta, sempre a rischio, e col rischio di mostrare troppo o troppo poco rispetto alla concorrenza. “Fermiamoci qui. Torniamo in studio, per favore. Stop. No alla spettacolarizzazione. Lei, esperto/a di geopolitica, come commenta?”.

Il collasso delle Torri, qualcosa che il terrorismo aveva progettato ma mai saputo eseguire su questa scala, l’eccezione, fu in realtà il trionfo ancora una volta dei media tradizionali, della norma.

«La condanna morale, l’unione sacra contro il terrorismo, sono commisurate al giubilo prodigioso che nasce dal veder distruggere la superpotenza mondiale, meglio ancora, dal vederla autodistruggersi, suicidarsi in bellezza» scriveva subito dopo gli attacchi Jean Baudrillard in “Lo spirito del terrorismo” (traduzione italiana di Cortina, 2002). Ma se qualcosa di così terribile (almeno per noi occidentali), di simbolicamente terribile, dovesse ricapitare, quanti sarebbero sulle televisioni e quanti invece sul loro smartphone, in diretta con l’evento, senza filtri? È quanto è via via accaduto negli anni successivi, una progressione inarrestabile. Già l’invasione dell’Iraq nel 2003 fu ben diversa, quanto alla copertura giornalistica, rispetto alla prima guerra del Golfo. Nel 2004 Atocha in Spagna. Nel 2005 gli attacchi alla metropolitana di Londra. Qui, già un mix di informazione tradizionale e di flusso internet.

LA PRIME IMMAGINI DI DECAPITAZIONI

Il primo video di una decapitazione è del febbraio 2002, quella del giornalista Daniel Pearl, a Karachi. Nel maggio 2004 tocca a Nicholas Berg, la prima esecuzione compiuta personalmente dal Al Zarkawi in Iraq. Sempre nel 2004 viene ucciso Fabrizio Quattrocchi, un colpo in testa, e sempre in Iraq. Il video, recapitato ad Al Jazeera, non sarà trasmesso. Nel 2014 viene decollato James Foley, stavolta dall’Isis. Basta confrontare la qualità delle immagini di questi video, la competenza della messa in scena, e le modalità di diffusione, per trovarsi di fronte a un universo mutato. E basta rievocare le discussioni nelle redazioni dei vari telegiornali di fronte a quei primi video: trasmettere, non trasmettere? Trasmettere fino a che punto? Trasmettere e oscurare il momento più atroce, ma lasciando magari il sonoro?

Scelte giornalistiche, dure scelte, non diversamente da quella di Scalfari di fronte ai comunicati Br.

(2 – Continua)

 

 

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