Nelle puntate precedenti la nostra attenzione è stata prima rivolta a fornire una fotografia dei numeri dell’attività antidoping in Italia e nel Mondo. Poi, abbiamo iniziato il viaggio vero e proprio nel mondo dell’antidoping, grazie a un’esplorazione che ci ha condotto nei meccanismi, burocratici e non, necessari al corretto svolgimento dell’operazione di prelievo dei liquidi biologici degli atleti.
Prima d’inoltrarci nell’attività del laboratorio antidoping di Roma, la fase più delicata e importante di tutta la “filiera”, perché proprio in questo contesto potrebbe essere compromesso il futuro di un atleta trovato positivo a sostanze vietate, è necessaria una premessa.
Nel momento in cui entra in gioco, la Wada (1999 ndr) impone ai Paesi la sottoscrizione di un accordo riguardante i laboratori accreditati per i test antidoping.
Partendo dagli Stati Uniti (che possiamo considerare apripista del settore), si comincia a parlare con insistenza di standard di qualità (per esempio, certificazioni Iso e accreditamento) e si riconosce al modo di operare in laboratorio una conformità rispetto a una serie di norme di riferimento.
La Wada, dunque, riorganizza l’intero sistema antidoping creando degli standard che rendono omogenea l’attività di tutti i laboratori, con gli stessi criteri e identiche procedure, e dove le sostanze dopanti da trovare sono le stesse per tutte le strutture accreditate.
COME SI ARRIVA ALL’ACCREDITAMENTO?
Ne abbiamo accennato nella puntata riguardante i prelievi. Possedere l’accreditamento significa per la Wada riconoscere al laboratorio la possibilità di operare in conformità alle norme di riferimento imposte dalla stessa World Anti-Doping Agency.
Tuttavia, la Wada chiede molto di più. Infatti, tutti i laboratori che operano nel campo antidoping devono essere in possesso anche di una certificazione Iso 17025 (della durata di quattro anni ndr).
Senza questi due accreditamenti i laboratori non entrano nel circuito e non possono fare parte del sistema antidoping internazionale.
Al laboratorio Fmsi di Roma l’Iso 17025 è stato riconosciuto dall’Ente Unico nazionale di accreditamento, “Accredia”1, un soggetto designato dal governo che attesta la “competenza, l’indipendenza e l’imparzialità degli organismi di certificazione, ispezione e verifica, dei laboratori di prova e taratura”.
La Wada, insomma, introduce un nuovo concetto che potremmo riassumere così: la vostra struttura può anche essere preparatissima dal punto di vista dell’antidoping, pure con grandi performance nella ricerca delle sostanze dopanti, ma non mi basta, perché tutti i laboratori accreditati devono operare in conformità con gli alti standard indicati e pretesi dalla nostra agenzia.
Questa rigidità si traduce, per quanto riguarda il laboratorio Fmsi, nell’intervento ispettivo di Accredia, un ente terzo, istituito anche per verificare il rigore e la qualità delle procedure durante il lavoro svolto dal laboratorio antidoping.
Eppure, ancora non è finita. Perché nelle vesti di “controllore” ama cimentarsi direttamente anche la stessa Wada.
Come? Inviando periodicamente al laboratorio (generalmente con cadenza trimestrale ndr) dei campioni incogniti chiamati “Pt” (Proficiency test ndr), detti anche test di performance.
Si tratta di flaconi di urina contenenti una o più sostanze vietate, sopra una certa concentrazione, oppure di campioni completamente negativi.
Non contenta, la Wada organizza l’invio anche di “campioni civetta”, ovverosia flaconi inseriti nei lotti ordinari normalmente prelevati al termine delle gare per essere controllati, ma non distinguibili dagli altri.
Terminata l’inevitabile premessa, torniamo al laboratorio antidoping di Roma.
I primi a occuparsi dei flaconi sono i responsabili della segreteria tecnica, la sezione della struttura che si occupa delle verifiche di conformità a campione chiuso.
A garanzia dell’imparzialità del risultato, a protezione del dato e per scongiurare manomissioni da parte del laboratorio, è bene ricordare che al campione arrivato al Fmsi con il codice identificativo applicato dal medico prelevatore (ipotizziamo A 2637458), sarà assegnato un ulteriore codice di laboratorio (denominato “codice interno”), sigla che identifica l’anno, il numero progressivo di lotto e il numero progressivo attribuito dall’inizio dell’anno a tutti i campioni giunti per essere sottoposti ad analisi.
Parliamo di precauzioni che hanno lo scopo di alzare il livello di anonimato, poiché l’accoppiamento fra codice esterno (quello applicato appunto dal medico prelevatore) e codice interno, è conosciuto solo dalla segreteria tecnica e non dal settore interessato alle analisi.
In breve, gli addetti alle analisi movimentano esclusivamente i flaconi con il codice interno, circostanza indispensabile per garantire il totale anonimato dell’atleta sottoposto ai controlli.
Conclusa la fase di riassegnazione, cioè al termine del controllo incrociato di corrispondenza tra codici di prelievo riportati sui verbali e codici applicati sui flaconi, la prima operazione che si concreta è il congelamento del campione B (flacone che non sarà più toccato, se non alla presenza di una richiesta di controanalisi. In caso di riscontrata negatività, il materiale biologico sarà pronto per lo smaltimento).
TUTTE LE FASI DELL’ANALISI DEL CAMPIONE
Entriamo, dunque, nella parte più calda del percorso. Con le operazioni analitiche e preanalitiche sul flacone A si dà il via alle danze, a partire proprio dall’apertura dei flaconi. Un compito esercitato solo da personale tecnico autorizzato, attraverso l’utilizzo di un’apposita pressa presente in laboratorio.
Una volta aperto il campione, è sempre il personale tecnico a preoccuparsi della ripartizione in “aliquote”, cioè in provette con volumi e caratteristiche generali diverse, da indirizzare alle varie linee analitiche.
In alcuni casi le aliquote subiscono dei pretrattamenti allo scopo di rendere evidente la presenza di sostanze vietate nel campione.
La fase successiva di questa “catena di montaggio” riguarda l’analisi vera e propria del campione prelevato.
In quest’articolato gioco di squadra entrano ora in campo gli analisti. Sono loro, infatti, ad attivare la fase strumentale, verificare i tracciati con i risultati dei campioni e intraprendere quella che in gergo si chiama fase di screening.
Durante l’opera di “setaccio” sono subito eliminati i campioni negativi (in questo caso sarà premura del laboratorio fornire la documentazione di negatività necessaria all’autorità che ha disposto il controllo ndr), per concentrare l’attenzione sul materiale biologico “dubbio”.
Se qualche dato anomalo resta intrappolato nelle maglie del “setaccio” si rende necessario un ulteriore approfondimento, la cosiddetta “analisi di conferma”, quella definitiva.
In estrema sintesi, quest’ultima tappa confermerà la presenza di sostanze vietate oppure, accerterà la negatività del campione analizzato (indicato come “falso positivo” ndr), portando, quindi, alla fine dell’iter analitico.
Che cosa succede in caso di presenza di sostanze vietate (parliamo ovviamente di quelle presenti nel pannello stilato dalla Wada, lista aggiornata una volta l’anno e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale su sollecitazione del Ministero della Salute) e come funziona una controanalisi – se richiesta – lo scopriremo nella prossima parte del nostro viaggio nel mondo dell’antidoping.
(3 – Continua)
nota:
1 Accredia è l’Ente Unico nazionale di accreditamento designato dal governo italiano, in applicazione del Regolamento europeo 765/2008 (cfr. https://www.accredia.it/)