Ricordate l’explicit del film The Millionaire? Quel «D: Era scritto»?
«Era scritto» anche nella storia di queste primarie democratiche: Joe Biden – il front-runner, il “futuro presidente”, quello che “ha sbagliato a non candidarsi nel 2016” – l’ex vicepresidente, si appresta a scrivere la parola fine alla sua campagna elettorale se le condizioni che di seguito verranno elencate troveranno riscontro nella realtà.
Negli scorsi giorni Morning Consult ha pubblicato un sondaggio – elettori di Iowa, New Hampshire, South Carolina o Nevada, i primi quattro stati in cui si vota per le primarie – da far tremare casa Biden e tutto il Delaware: Joe Biden, il favorito, potrebbe uscire con zero delegati da Iowa e New Hampshire. A fargli compagnia, Elizabeth Warren – che, a dire il vero, qualche delegato lo recupererà in quei due stati – che dopo averlo sorpassato sfruttando la momentanea sospensione della campagna elettorale di Sanders, è in caduta libera stile Kamala Harris.
Alla luce di questa valutazione occorre aggiungere l’elemento che rende drammatica la situazione per Biden: in South Carolina è avanti di 30 punti.
Immaginate, ora, cosa significhi uscire con zero delegati da IA e NH.
Vola invece Bernie Sanders, che rappresenta anche la prima scelta migratoria degli elettori di Biden e Warren, oltre ad essere in piena lotta per la prima posizione per numero di delegati – prima del super Tuesday – con il resiliente Pete Buttigieg, ormai non più piacevole sorpresa ma consolidata realtà. Buttigieg resta il favorito in Iowa. Sanders è ora il favorito in New Hampshire.
Torniamo però a Biden. Perché «era scritto» che la sua campagna elettorale fosse a rischio implosione e tracollo?
Anzitutto il primo problema è da rintracciare negli elettori di Biden: l’ex VP va fortissimo negli over 45 ma malissimo fra i giovani, è la seconda scelta solo degli elettori di Buttigieg – a rischio sorpasso dalla Warren – e, fra i candidati maggiori, è quello su cui gli elettori hanno una impressione sfavorevole maggiore. In questa speciale classifica che lo attesta al 23%, è superato da Tulsi Gabbard – tutti sappiamo i motivi – e da Michael Bloomberg, solo perché gli americani non vogliono una sfida fra multimiliardari. Inoltre, in undici mesi, è sceso dal 69% di elettori che si dichiaravano favorevoli ad una sua nomination al 55%. Ben 14 punti percentuali: mai nessun candidato aveva fatto registrare un calo così vertiginoso nella storia delle presidenziali.
E ancora: l’Ucrainagate riguarda lui tanto quanto il Presidente. Inutile negare che due vite da salvare, politicamente parlando, da questa sfida sono troppe. E certamente, i repubblicani al Senato, nonostante la ferocia democratica per smobilitare l’elettorato, alla fine chiuderanno la procedura rafforzando il Presidente. Come peraltro scrivemmo in tempi non sospetti.
Esiste il dato statistico e scaramantico, inoltre: nessun candidato che ha raccolto zero delegati in Iowa e New Hampshire ha poi vinto le primarie.
Insomma, i motivi per cui Joe Biden rischia di decretare la fine della sua campagna elettorale sono molteplici. Inoltre, Vanessa Cárdenas, la più importante consigliere della campagna di Joe Biden sugli ispanici, ha lasciato il suo incarico a causa della «mancanza di input e per la retorica sull’immigrazione del candidato». Non proprio il massimo.
Potrebbe, però, Biden restare in piedi nonostante tutto? Sì, esiste una sola eventualità. Se la sfida Biden/Buttigieg vs Sanders/Warren non dovesse sbloccarsi prima del supermartedì, esiste il serio rischio che Biden vinca gli stati in cui l’elettorato di colore incide maggiormente – sono noti, a tal proposito, i problemi di Buttigieg e Sanders con questo elettorato (non guasterebbe proporre Stacey Abrams come VP, a tal proposito) – mentre l’ex sindaco di South Bend e il senatore del Vermont andrebbero a vincere in tutti gli altri stati – non viene presa in considerazione la senatrice Warren perché, come detto sopra, è in caduta libera (per intenderci senza fraintendimenti: in meno di un mese, da front-runner a terza, ben 14 punti persi) – provocando, in ultima analisi, una Convention contestata.
Occorre inoltre evidenziare come, nella marea di candidati ancora presenti e con Bloomberg che non parteciperà alle primarie nei primi quattro stati in gioco, appare evidente che uno fra Sanders e Warren – si contendono lo stesso elettorato – dovrà mollare la presa – Warren indiziata numero uno – e preparare un endorsement in favore dell’altro subito dopo il 3 marzo. Stesso discorso vale per Biden e Buttigieg: solo un passo indietro di uno a favore dell’altro eviterà lo spezzatino che verrà fuori in caso di scontro voto a voto fino alla fine. A tal proposito, l’ingresso di Bloomberg non fa che complicare la sfida fra moderati.
E se, appare evidente che nel masochismo i democratici ci sguazzano come un savoiardo nel tiramisù, dovrebbe apparire ancora più chiaro che questa situazione favorisce solo ed esclusivamente Donald Trump.
E con l’Ohio che probabilmente, per la prima volta nella sua storia, voterà repubblicano a prescindere da chi sarà il Presidente – utile promemoria: l’Ohio vota sempre per il candidato Presidente che poi risulterà eletto –, con il Wisconsin dove Trump è avanti – vantaggio nel margine d’errore, sia chiaro – contro tutti i maggiori candidati democratici alla nomination per la prima volta, restano cinque stati in bilico – Arizona, Florida, Georgia, North Carolina e Pennsylvania, oltre ad un grande elettore in Nebraska – e il Presidente uscente ha già insegnato come sia capace di fare sorprese.
Infine, «era scritto» anche che le primarie sarebbero diventate così. E se per gli addetti ai lavori la difficoltà è direttamente proporzionale al divertimento assicurato, si può finalmente affermare che da adesso non sono più ammessi errori e che, finalmente, si fa sul serio perché si entra nel vivo.