Connect with us

Hi, what are you looking for?

Politica

Trump, Salvini e Meloni: differenze e punti in comune

Dalla notte dell’8 novembre 2016, quando contro tutti i pronostici divenne presidente degli Stati Uniti battendo la candidata dell’establishment Hillary Rodham Clinton, Donald J. Trump è diventato un modello per tutti i leader che presidiano l’area politica cosiddetta sovranista e populista.

Anche in Italia, dopo gli inevitabili raffronti con Silvio Berlusconi (molti parallelismi ma poche somiglianze tra i due che, comunque, sono espressione di due epoche politiche assai differenti) un giorno sì e l’altro pure c’è chi paragona il tycoon newyorkese a Matteo Salvini e Giorgia Meloni fermandosi, però, a osservazioni piuttosto banalotte su temi come l’immigrazione o l’utilizzo di toni che i detrattori definiscono “aggressivi”.

Già, ma se ci sforzassimo di scavare un po’ di più, cosa troveremmo? Ci proviamo noi, analizzando punto per punto i temi più identitari di quell’area politica ben sapendo che, se in termini puramente teorici il confronto ci può stare, dal punto di vista pratico non possiamo fare a meno di constatare la diversità sostanziale del contesto americano rispetto a quello italiano.

Storia e identità

Meloni

Politicamente Giorgia Meloni non è mai uscita di casa… nel senso che, attualmente, presidia la medesima area politica in cui è nata e cresciuta, ovvero la destra che, nei primi anni ’90, visse l’evoluzione che sfociò nella “svolta di Fiuggi” e il conseguente passaggio da MSI ad Alleanza Nazionale.

Se quello fu il principio di una destra 2.0, potremmo dire che il nuovo corso incarnato da Giorgia Meloni – ripartita, è bene ricordarlo, dal cumulo di macerie post-pidielline lasciato da Gianfranco Fini – rappresenta la digital distruption di quel bagaglio culturale e politico, dove quel che rimane di analogico (la “vecchia” classe dirigente) sta fisiologicamente lasciando il posto alla cosiddetta “Generazione Atreju”, di cui Giorgia è madre e figlia al tempo stesso.

Dal punto di vista identitario ha, per molti aspetti, riportato le lancette della destra a prima degli “strappi” di Fini su temi come l’immigrazione, allineandoli alle questioni globali esplose con la crisi del 2008 e la conseguente scomparsa della classe media.

Salvini

Non si può certo dire che la “palestra” durata 25 anni in Consiglio comunale a Milano non gli abbia giovato, anzi. Chi ne conosce la storia sa perfettamente che Salvini se li è fatti lì i muscoli del leader capace di risollevare un partito distrutto dalle vicende giudiziarie e radicato solamente al Nord trasformandolo, nel giro di tre anni, nella prima forza politica a livello nazionale. Difatti, non ha dovuto far altro che applicare il medesimo modello “presentista” sperimentato con profitto nei quartieri del capoluogo lombardo e applicarlo a livello nazionale, amplificandone l’eco in quanto primo politico ad aver capito che il digital non è soltanto comunicazione ma, prima di tutto, strategia.

Ergo, non si è limitato – come ancora fanno erroneamente molti – a usare il Web come semplice canale di distribuzione dei propri contenuti, ma ha ribaltato il concetto, creando contenuti e – attenzione – compiendo azioni studiate appositamente per il web.

I risultati sono evidenti e, in queste dimensioni, sono stati resi possibili anche dalla scelta di non darsi una connotazione identitaria troppo precisa. Al netto di una sua contrapposizione chiara alla dittatura del politicamente corretto, non lo sentirete mai definirsi “di destra”, cosi come è sempre piuttosto refrattario a parlare di “centrodestra”. Questo perché ha compreso che il crollo delle ideologie prima, il terremoto di Tangentopoli poi e, infine, gli insuccessi di seconda repubblica (berlusconismo, renzismo e grillismo) hanno determinato una scomposizione tale dell’elettorato da consentirgli di raccogliere consensi praticamente ovunque.

Trump

Quando, per il mio reportage del 2016, andai a intervistare il presidente del Metropolitan Republican Club, vero e proprio tempio del Grand Old Party a New York, parlando dell’identità di Trump, egli premise che: «va ricordato che era un democratico». Questo per significare come il trumpismo trovi sì parecchie aderenze con protagonisti del pantheon repubblicano (come Reagan per l’economia e Pat Buchanan riguardo al conservatorismo) ma che, dal punto di vista genetico, esso più che da una precisa dottrina politica in realtà derivi da quell’Art of the Deal che è a tutt’oggi la vera e propria ragione sociale dell’agire del Trump presidente, oltre che dell’imprenditore. Certo, poi, nel 2015, Steve Bannon gli portò in dote quella matrice “d’area” che certamente gli mancava e senza la quale, con ogni probabilità, assai difficilmente sarebbe riuscito nell’impresa di battere HRC, ma va altresì ricordato che senza un interprete “perfetto” come Trump (anti-establishment, esterno ai partiti, indipendente economicamente e perciò libero di poter dire quel che gli pare, conosciuto e carismatico) quel “popolo” sarebbe rimasto maggioranza silenziosa, e molto probabilmente si sarebbe in gran parte astenuto. A questo proposito non è certo un caso che, una volta conquistata la nomination, Trump concluse il proprio discorso alla Convention repubblicana di Cleveland con la frase «I’m your voice», io sono la vostra voce.

Slogan e comunicazione

 Meloni

Pur avendone avuti diversi, direi che quello che più di altri ne caratterizza storia e leadership è senz’altro quello che utilizzò a cavallo della fine del Pdl (per la candidatura alle primarie che non si tennero mai) e la conseguente fondazione di Fratelli d’Italia: «Senza paura». Un claim poi utilizzato anche per la campagna elettorale delle elezioni politiche del 2013. Più in generale, dal punto di vista della comunicazione, Giorgia Meloni si distingue soprattutto per due caratteristiche: preparazione ed esperienza, che sono entrambe frutto del cammino politico che ha intrapreso da giovanissima e grazie al quale oggi è una leader giovane e autorevole al tempo stesso. Peculiarità che la rendono estremamente efficace sia in televisione che online dove, però, per consonanza di temi e di toni lei e Salvini finiscono molto spesso con il sovrapporsi. 

Salvini

Prima differenza rispetto alla Meloni: anziché un claim, cioè slogan che variano da campagna a campagna, Salvini ha scelto un payoff, ovvero una frase che ha la funzione di completare il logo. Come avrete già capito mi riferisco a «Prima gli italiani», “rubato” a CasaPound e in parte anche a Gianni Alemanno che, nel 2013, creò un think tank che si chiamava «Prima l’Italia», rifacendosi chiaramente al concetto di «America First» di cui parleremo tra poco. Differenza non da poco quella tra “Italia” e “italiani”, a maggior ragione se indirizzato a un popolo come il nostro, che si caratterizza per il suo essere marcatamente individualista e certamente più provinciale che patriottico.

Riguardo alla comunicazione tout court potremmo definire Matteo Salvini il Vasco Rossi della politica, non certo per affinità dal punto di vista programmatico (anzi!), ma per la capacità di esprimere con parole semplici concetti difficili. Un vero e proprio dono.

La parte della comunicazione online l’avete già letta nel capitoletto riguardante “Storia e identità”, dove l’ho volutamente inserita perché, come ho scritto, in Italia è stato l’unico a utilizzare il Web come strategia e non soltanto come semplice canale di comunicazione.

Trump

In termini di consenso, la scelta del payoff ha sicuramente pagato anche per Donald Trump, che ha fatto di «Make America Great Again» non soltanto una sorta di second brand, ma anche un vero e proprio filo conduttore tra lui e il presidente più popolare di tutti i tempi tra l’elettorato reppubblicano, ovvero Ronald Reagan, che utilizzò «Let’s make America great again» per la sua campagna elettorale del 1980. Ripeterlo ossessivamente durante tutti i suoi discorsi e ricamarlo sui suoi cappellini rossi facendone un vero e proprio segno distintivo, ha fatto sì che il concetto rappresentato da quelle parole venisse inconsciamente associato alla figura di Donald Trump. Mentre, più che un vero e proprio slogan, «America First» rappresenta per Trump la bussola, soprattutto dal punto di vista delle politiche economiche. Riguardo alla comunicazione, in un’intervista rilasciata il 21 ottobre del 2017 a Fox News, Trump stesso ammise che «senza i social network molto difficilmente sarei diventato presidente» per il semplice fatto che, grazie a quei canali può tranquillamente permettersi di bypassare i media tradizionali.

Per capirci, Trump non ha bisogno di farsi intervistare in tv o dai giornali, perché comunica con i suoi seguaci attraverso il web, ottenendo un triplice vantaggio: può permettersi di dire quello che gli pare, senza alcun tipo di filtro e parlando direttamente ai suoi interlocutori. L’inevitabile cassa di risonanza che i media tradizionali sono costretti a fare a ciò che Trump pubblica in rete, rende la sua comunicazione crossmediale, cioè che passa da tutti i media facendola così “arrivare” a un numero altissimo di persone. Altra caratteristica fondamentale di Trump – forse quella che più di tutte lo accomuna a Salvini – è la capacità di polarizzare il dibattito, spingendo gli avversari a non parlare di se stessi e delle loro proposte, ma di lui. Oggi, a quasi 4 anni dalla sua elezione, il presidente americano può presentarsi davanti agli americani forte delle «promises kept», le promesse mantenute, chiedendo loro di confermarlo per poter «mantenere l’America grande», «Keep America Great».

 

Il punto di forza e il tallone d’Achille

Meloni

Lo ha sintetizzato bene lei stessa il 29 gennaio scorso quando, rispondendo a Giovanni Floris che le domandava chi, tra lei e l’alleato leghista fosse più di destra, affermò senza tentennamenti: «io sono di destra da sempre, io sono la destra. Sono la storia della destra. Quella di Salvini è tutta un’altra storia». Ecco il vero tratto distintivo di Giorgia Meloni è, come abbiamo visto in precedenza, limite e punto di forza al tempo stesso: la sua identità, che significa anche continuità con una storia che affonda le proprie radici in quel 26 dicembre del 1946, giorno in cui Giorgio Almirante e Pino Romualdi diedero vita al Movimento Sociale Italiano. Ora, dopo aver avuto la forza di portare a compimento la traversata del deserto lasciato da Gianfranco Fini, la nuova sfida di Giorgia sarà quella di offrire alle giovani generazioni una prospettiva nuova e una visione, concreta e onirica al tempo stesso, in cui credere e per la quale valga la pena di combattere dando loro le motivazioni che li spingano, sin da giovanissimi, a impegnarsi. Proprio come fece lei.

Salvini

Per Salvini vale più o meno l’inverso di quanto detto riguardo a Giorgia Meloni che, vista così potrebbe sembrare una differenza in termini negativi ma che, letta in ottica di alleanza, è la dimostrazione che i due non si sovrapporranno mai sulle questioni di sostanza. Infatti, dopo essere cresciuto all’ombra di Umberto Bossi e del sole delle Alpi (il simbolo che il Senatùr scelse per la “Padania”), Matteo Salvini è stato capace – inaspettatamente per molti, me compreso, va detto – di un vero e proprio miracolo politico, rianimando una Lega ridotta ai minimi termini dagli scandali giudiziari e riuscendo a darle, al contempo, una connotazione nazionale facendone il primo partito. Chapeau. Impresa resa possibile – e mi rendo conto che possa sembrare un paradosso – anche grazie alla sostanziale assenza di un’identità ben precisa nell’offerta politica del Capitano della Lega che, giustamente dal suo punto di vista, infatti continua a rifiutare qualsivoglia classificazione mediante l’utilizzo delle “vecchie categorie della politica”. Insomma, in questo momento Salvini e la Lega sono una sorta di lavagna bianca su cui, di volta in volta, scrivere le battaglie più popolari e farle proprie. Una strategia che, fino a ora, ha dimostrato di pagare eccome anche se, come sappiamo, mai come oggi… del doman non v’è certezza.

Trump

Cominciamo dal punto di forza che, poi, da avversari e detrattori è giudicato (erroneamente, è evidente) come un limite: il suo linguaggio semplice. Come detto prima per Salvini, anche Trump è molto bravo a esprimersi utilizzando un linguaggio che sembra fatto apposta per Twitter, al punto che, nel novembre del 2015, si autodefinì (in un tweet, ça va sans dire) «l’Ernest Hemingway dei 140 caratteri». Molti dei suoi detrattori lo accusano di avere un “vocabolario limitato” non accorgendosi che la sua propensione a esprimere concetti difficili in un linguaggio semplice sia una delle sue abilità migliori. Per ciò che concerne il tallone d’Achille, parto raccontando un episodio accaduto il 17 gennaio del 2017, ovvero il giorno dell’Inauguration Day (il giuramento del nuovo presidente). Prima della cerimonia gli Obama accolsero Trump e consorte sulla porta della Casa Bianca, a quel punto Melania consegnò un regalo a Michelle, che si guardò attorno spaesata, perché non poteva mettersi in posa per la foto di rito con una scatola in mano. Per un attimo Trump guardò i due militari che stavano dietro di loro che, però, non batterono ciglio e rimasero immobili nella loro posizione di saluto. Alla fine dovette pensarci Obama, prendendo il pacco dalle mani della moglie e tornando all’interno della Casa Bianca per appoggiarlo da qualche parte. Ebbene, l’immagine dei militari fermi di fronte a un’impellenza – per quanto banale – del neo Presidente, rappresenta plasticamente la differenza tra il concetto di Stato e quello di azienda. Ecco, se, come sembra, la notte del prossimo 3 novembre Trump otterrà la riconferma, dovrà sfruttare il suo secondo mandato per entrare definitivamente nella storia, passaggio che non può in alcun modo prescindere anche da una sua maggiore “istituzionalizzazione”.

Programma

Riguardo a temi identitari come immigrazione, famiglia e lotta contro il politicamente corretto i tre sono sostanzialmente allineati tranne che sull’aborto, rispetto a quale Trump e Meloni sono dichiaratamente contrari mentre Salvini mantiene una posizione più sfumata. Altre differenze – anche piuttosto nette – sorgono sui temi legati all’economia, dove Trump ricalca fedelmente la Reaganomics facendo sue posizioni tipicamente liberiste: meno tasse e meno stato, per intenderci, mentre Salvini e Meloni (e questo in prospettiva appare come uno dei loro più grossi limiti) in alcuni frangenti conservano una visione ancora troppo statalista, che va in netto contrasto con “l’elettroshock economico” di cui avrebbe bisogno l’Italia e, va detto, anche con il nuovo contesto socio-economico. I tre tornano invece ad avvicinarsi riguardo al concetto di “sovranismo”, declinabile sia in chiave economica (tutela del Made in…, premiare chi non delocalizza, dazi), che in funzione di politica estera.

Un episodio determinante

Meloni

Da grande militante quale è sempre stata, Giorgia Meloni ha sempre vissuto la sua esperienza politica con grande senso di responsabilità nei riguardi della Comunità politica e umana della destra italiana, comprese quelle 21 vite prematuramente spezzate dall’odio degli avversari politici della sinistra extraparlamentare (troppo spesso, va detto, fiancheggiata o comunque giustificata anche da quella istituzionale) negli Anni di Piombo. Credo di non sbagliarmi, quindi, affermando che siano state storie come quelle di Sergio Ramelli, Paolo Di Nella, Mikis Mantakas, Acca Larentia e Primavalle a spingerla, quando aveva 15 anni, a impugnare la fiaccola tricolore del Fronte della Gioventù.

Salvini

29 dicembre 2015, alla conferenza di fine anno Matteo Renzi dichiara che «è del tutto evidente che se perdo il referendum costituzionale, considero finita la mia esperienza in politica», concetto su cui l’attuale leader di Italia Viva fu ancora più chiaro il 12 gennaio 2016 a Repubblica.tv: «intendo assumermi precise responsabilità. È un gesto di coraggio e dignità. Se perdo il referendum io non solo vado a casa, ma smetto di far politica». Scommetto che qualcuno di voi starà pensando che ho sbagliato Matteo. Nient’affatto, l’episodio è quello giusto e, sia pur indirettamente, riguarda il Matteo di cui ci stiamo occupando noi, cioè Salvini. Sì, perché il capo della Lega fu il primo a fiutare il sangue della preda e ad attaccarla, sfruttando quelle dichiarazioni suicide: da quel momento in poi quello non fu più un referendum sulle riforme costituzionali, ma pro o contro Matteo Renzi che, è bene ricordarlo, pur essendo diventato premier senza essere passato dalle urne, era forte del 40% ottenuto con il PD alle europee del 2014. A distanza di 5 anni possiamo quindi dire che quello fu lo snodo in cui s’incrociarono la fine (almeno a quei livelli) di Renzi e l’inizio del nuovo Salvini.

Trump

Riguardo alla sua esperienza complessiva in politica, al di là del girovagare tra repubblicani, democratici e riformisti (per le presidenziali del 2000 fu paventata anche la sua candidatura), ritengo che, riguardo alla presidenza, Trump abbia “girato il cappellino” (gesto con cui Stallone si dà la carica nel film Over the Top, ndr.) la sera del 1 maggio 2011 quando, durante la tradizionale cena annuale dei corrispondenti alla Casa Bianca, Obama si prese gioco di lui mentre era seduto in platea accanto alla moglie Melania. Già, ma perché? I fatti stanno in questo modo: nelle settimane precedenti Trump attaccò Obama, lanciando una feroce campagna in cui arrivò a metterne in dubbio l’eleggibilità asserendo che non fosse effettivamente nato in America e sfidandolo a più riprese a dimostrare il contrario pubblicando il certificato di nascita. Cosa che, effettivamente, il 27 aprile Obama fece, mettendo la parola fine alle polemiche. Evidentemente, però, l’allora presidente doveva essersela presa parecchio, al punto da utilizzare quell’appuntamento ufficiale per vendicarsi umiliando Donald Trump in diretta mondiale, pronunciando un monologo di diversi minuti (senza diritto di replica) durante il quale mostrò perfino un rendering che raffigurava una Casa Bianca stile casinò «ecco i cambiamenti che apporterà quando sarà presidente». Episodio che, il giorno dell’Inauguration Day di Trump, dev’essere certamente tornato in mente a entrambi, stavolta a ruoli invertiti.

Riflessione finale

A mio avviso, la riflessione più importante che emerge da questa analisi è che così come Trump è riuscito a diventare il punto di riferimento per il popolo americano, Meloni e Salvini hanno tutte le carte in regola per imporsi in Europa come modello capace di andare oltre le etichette di populismo e sovranismo creando, così, un’alternativa di governo seria e credibile alle forze della sinistra che attualmente incarnano l’establishment.

Written By

è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

Advertisement Mai arrendersi

Articoli che potrebbero interessarti

Comunicazione

Quando Ferdinando Bova mi ha chiesto di fare da project manager per la prima edizione del Premio Visionari d’Impresa, ho accettato subito con entusiasmo....

POLITICA USA

Conduce Marcello Foa con Peter Gomez. Intervengono Antonella Mori (Direttore del Programma America Latina – ISPI, docente di economia alla Bocconi di Milano), Alessandro...

POLITICA USA

Nella puntata dell’11 novembre 2024 di “XXI Secolo” su Rai 1, Alessandro Nardone, riconosciuto come il maggiore conoscitore italiano di Donald Trump, ha offerto...

POLITICA USA

Marcello Foa: Abbiamo Alessandro Nardone, giornalista, esperto di comunicazione che ha pubblicato tra l’altro un saggio dal titolo eloquente: Mai arrendersi – Il vero...