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POLITICA USA

È partita “la Bestia” di Bloomberg

Prossima tappa California. The Golden State assegna ben 415 delegati vincolati per la Convention e Mike Bloomberg, vista l’impossibilità di partecipare ai primi quattro appuntamenti nelle primarie democratiche, ha deciso di concentrare lì la maggior parte dei suoi sforzi, soprattutto economici.

Questi digital soldiers appaiono su Twitter come sostenitori registrati regolarmente al voto o, più semplicemente, come utenti nuovi ma decisamente schierati in vista del 3 marzo, giorno del Super Tuesday.

Il dato emerge dall’inchiesta condotta dal Los Angeles Times che dimostra come tutti questi utenti abbiano creato il loro profilo Twitter nell’ultimo mese.

La differenza con chi fa questo lavoro di professione – i cosiddetti influencer – sta proprio in questo: i professionisti del settore hanno migliaia di seguaci, like e condivisioni; costoro no, poiché assoldati di recente. Molto spesso pubblicano tramite account fake e, quindi, secondari rispetto al loro account originale, solo per aumentare la visibilità e la presenza di un determinato soggetto – in questo caso Bloomberg – sui social.

I contenuti, poi, sono sempre gli stessi: testo, immagini e collegamenti vengono forniti direttamente dallo staff della campagna di Bloomberg. «Uno dei modi più efficaci per raggiungere un numero maggiore di elettori – sostiene la portavoce dell’ex sindaco, Sabrina Singh – è proprio quello di interagire con i loro amici e con la loro rete (social) per incoraggiarli a sostenere Mike come presidente».

Molto spesso, però, la tipologia di tweet utilizzato ha fornito un risultato opposto rispetto a quello desiderato: Twitter ha bloccato questi account scambiandone il contenuto per spam o manipolazione. Sostanzialmente Twitter ha riscontrato delle violazioni delle regole e ha sospeso o eliminato molti account.

Costo di questa operazione? Non accettando donazioni, il magnate newyorkese ha sborsato di tasca sua circa 450 milioni di dollari per inondare ogni mezzo di comunicazione possibile, compreso gli spot durante il Super Bowl.

Tornando agli “avatar elettorali”, per queste persone si tratta di un vero lavoro: il professor Tim Groeling dell’University of California, Los Angeles, ha ammesso senza problemi di aver consigliato ai suoi studenti di iscriversi. «È denaro facile – ha detto – ed è probabilmente il lavoro più comodo che otterrete per 2.500 dollari al mese in tutta la vostra vita». Lo stesso professore ha poi ammesso che questo strumento dimostra sia come Bloomberg abbia un patrimonio pressoché illimitato, sia come abbia notevoli difficoltà a convincere l’elettorato democratico a sostenerlo in modo volontario.

Interessanti anche le dichiarazioni di uno fra queste cinquecento persone: «quando scrivo messaggi ai miei amici, molte persone pensano che sia spam o che il mio account sia stato violato (…) poi si rendono conto che, in realtà, sono io a crearli e che non è spam. Spero che loro immaginino che mi stiano pagando per questo».

Forniamo ora alcuni esempi negativi su come funziona questa macchina. Durante l’ultimo dibattito in Nevada – il primo in cui Bloomberg ha partecipato – un utente Twitter ha scritto: «chi è eccitato per il dibattito di stanotte?», con annesso link di collegamento per gli aggiornamenti sul dibattito stesso. Risultato? Un solo like e un commento che recita: «spero che almeno tu venga pagato per questo». E ancora: «È nato un presidente. Barbra Streisand canta le lodi di Mike! Dai un’occhiata al suo tweet». In copia vi era il collegamento a un post autorizzato dalla campagna elettorale di Bloomberg. Questo tweet è stato poi copiato e incollato da altri venti utenti. Risultato? Twitter ha chiuso i loro account.

A parte Twitter, anche Facebook e Instagram hanno regole del tutto differenti. Il social delle foto, vista l’impossibilità di copiare e incollare link e, soprattutto, visto che solo al raggiungimento dei 10mila follower è consentito aprire direttamente dei collegamenti con link tramite le stories, ha una politica, nonostante appartengano alla stessa azienda, molto più accomodante.

Al contrario, il social fondato da Mark Zuckerberg, ha modificato la sua policy. Facebook ha sempre trattato pubblicità politica e marketing come questioni separate. Dopo la creazione della macchina di Bloomberg e il conseguente utilizzo di una scappatoia per raggirare le regole imposte dal social, Facebook ha modificato il suo algoritmo.

Ecco due esempi di come questi grandi social stiano reagendo alla situazione. «Durante la notte dei caucus in Iowa, dopo una serie continua di tweet sui risultati, molti dei quali basati sullo stesso modello, Twitter ha scambiato il mio account per un bot e mi ha sottoposto a un test per confermare se fossi umano o meno».

«L’altro ieri, sulla pagina Facebook Elezioni USA 2020, abbiamo pubblicato un post – cosa che facciamo ogni ora, taggando, fra l’altro, le pagine Facebook dei candidati – proprio su Bloomberg. Il social ha messo in moto l’algoritmo che ci ha automaticamente inviato un messaggio chiedendoci se il nostro post fosse in partnership con la campagna di Mike Bloomberg. Abbiamo risposto “no”. Qualora avessimo affermato l’esistenza di una partnership, Facebook attraverso il suo algoritmo ci avrebbe chiesto delle prove a sostegno di ciò, contattando, inoltre, anche la campagna di Bloomberg stesso».

Insomma, la macchina propagandistica messa in moto da Bloomberg costituisce un vero e proprio lavoro e, nonostante non porti like e follower, copre un bisogno per chi ne usufruisce. Ala fine, però, va anche detto, che i soldi possono comprare tutto (anche la felicità), ma non le primarie in California e la presidenza degli Stati Uniti d’America.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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