Suona più o meno come quando si va al cinema a vedere un film con basse aspettative e poi si resta piacevolmente sorpresi dal contrario.
Joe Biden è il vincitore, non solo di questo piccolo Super Tuesday ma, anche, delle primarie democratiche. Non è avventato dirlo, per una serie di motivi che a breve seguiranno.
Anzitutto, però, occorre capire come l’ex vicepresidente sia stato capace di un recupero pazzesco. Iniziamo dicendo che se è vero che gli Stati Uniti sono quel posto nel mondo dove tutto è possibile, è altrettanto vero che l’impossibile, allora, inizia ad accadere.
Torniamo con la mente indietro di due settimane. È il 22 febbraio. Ci sono i caucus in Nevada. Bernie Sanders, dopo aver vinto il New Hampshire e dopo il disastro in Iowa, stravince nello stato di Las Vegas con 24 delegati su 36. Il senatore balza in testa alle possibilità di vittoria della sfida: cambiano i sondaggi in stati chiave come Michigan, Minnesota, Massachusetts, Texas e New York. Sanders è solidamente avanti ovunque. Non è mai accaduto che chi non ha vinto in uno dei primi due stati, abbia poi vinto la nomination. Sette giorni dopo si vota in South Carolina. Per Sanders è difficile vincere e il socialista si concentra sugli stati del 3 marzo. Joe Biden è il grande favorito per via della massiccia presenza afroamericana in questo stato. Arriva un endorsement importantissimo, quello di Jim Clyburn, Whip della maggioranza della Camera. Biden stravince nel giorno che rende il 2020 bisestile. Sanders, però, è ancora avanti per numero di delegati.
Sono le quarantotto ore successive a segnare definitivamente le primarie. Pete Buttigieg e Amy Klobuchar si ritirano dalla corsa e appoggiano Biden. L’ex “golden boy” democratico Beto O’Rourke fa altrettanto. Cambiano le previsioni. Ma resta l’incognita Mike Bloomberg. È il 3 marzo. Biden vince la contesa con dieci stati su quattordici – le American Samoa vanno a Bloomberg, per un totale di 15 gare – e segna l’inizio della parola fine. Texas, Massachussetts e Minnesota consentono a Biden di avere maggiore vantaggio, in termini di delegati, su Sanders. La California non basta. È flop Bloomberg e Warren. Arrivano i loro ritiri.
Biden ha creato una macchina perfetta.
Passano sette giorni, arrivano altri due endorsement, di cui uno non casuale in chiave vicepresidenza: Kamala Harris e Cory Booker. Sanders arranca. Ieri sera il suo staff ha fatto sapere che tirerà sicuramente fino al prossimo dibattito. Il “big prize” della serata è il Michigan con i suoi 125 delegati. Sanders nel 2016 sorprese tutti con questa vittoria. Le notizie, però, non sono buone: Biden è avanti dal primo voto reale. In Mississippi e Missouri è valanga moderata e afroamericana. Ancora prima delle 4 del mattino – orario di chiusura dei seggi in Idaho e Washington – Biden vince il Michigan. Ma non conta tanto questo, conta come. Con il 99% dei voti scrutinato, Biden ha vinto in tutte le contee dello stato. Tutte, nessuna esclusa.
Chiudono le urne nei due stati della West Coast: l’Idaho va a Biden. A Washington è voto a voto. Sanders perde anche qui – anche se dovesse vincere – perché nel 2016 polverizzò la Clinton. Il senatore si consola, per così dire, con i caucus in North Dakota, la sua specialità.
L’ultima conta non definitiva dei delegati parla chiaro: Biden 935, Sanders 777. 155 delegati in più. Un abisso.
Cosa è accaduto, quindi? Le strade sono due: o il Comitato Nazionale Democratico ha organizzato un colpo di stato contro Sanders, oppure Biden – grazie anche a Barack Obama – ha deciso di raccogliere l’ultima speranza che la vita gli ha offerto dopo tanti eventi tristi. La sua storia personale, a tal proposito, è davvero commovente.
L’organizzazione che Biden ha messo in piedi dopo la vittoria in South Carolina è stata perfetta. Ha sfruttato appieno gli endorsement, ha parlato di squadra, ha giocato contro tutti i punti deboli di Sanders. La sua media di preferenza fra gli elettori afroamericani è paurosa.
Ieri sera, nell’assordante silenzio di Sanders, Biden ha parlato da presidente. Ha ringraziato il competitor, ha parlato a viso aperto contro Donald Trump, è stato meno ripetitivo del solito, non ha nominato Barack Obama.
La strada è segnata.
Martedì prossimo si voterà in Arizona, Florida, Illinois e Ohio. 577 delegati. Biden rischia di lasciare Sanders a quota zero in Florida. L’Illinois è lo stato di Obama. L’Ohio e l’Arizona sembrano sfide più carismatiche.
Due giorni prima, a Phoenix, ci sarà l’ultimo dibattito. E, non importa quanto Sanders sarà capace di dimostrare che Biden ha il carisma di Nonno Simpson.
La strada è segnata, e dice che Nonno Joe, il 3 novembre, affronterà Donald Trump. Anche perché, se Sanders dovesse rimanere in vita martedì prossimo, ci penserà la Georgia il 24 marzo a chiudere i giochi.
Infine, se il 2016 è servito davvero da lezione ai democratici, è necessario che la partita più importante di Biden sia proprio la vicepresidenza. Tim Kaine perse amaramente contro Mike Pence nel dibattito e come figura. Le quotazioni principali vedono Kamala Harris in ascesa, eppure la geografia elettorale del 2016 insegna che senza la Rust Belt non si vincono le elezioni. Se Ohio e Florida andranno ai repubblicani, ai democratici non basterà vincere Michigan e Pennsylvania. Piuttosto che una senatrice della progressista California e per giunta afroamericana – una fascia già conquistata da Biden – occorre concentrarsi in quegli stati.
Consiglio non richiesto: Tammy Baldwin del Wisconsin. Perché se i democratici dovessero vincere il Wisconsin, per Trump, allora, si farebbe davvero dura.