Cara Vittoria,
quando sarai grande ricorderai questo periodo emozionandoti ogni volta che in televisione (se ci sarà ancora) trasmetteranno le immagini di quello che è accaduto quando tu avevi 7 anni appena.
Sarà sufficiente che quelle sensazioni ti attraversino solo per un istante e tuoi magnifici occhi si faranno umidi, mentre un brivido ti correrà lungo la schiena, proprio com’è accaduto ieri sera, mentre guardavamo il telegiornale.
Così, improvvisamente, dovunque ti troverai e qualsiasi cosa tu sia impegnata a fare, per un attimo tornerai a essere la bambina che aveva bisogno di gettarsi tra le braccia di mamma e papà in cerca di sicurezza e conforto.
Sai Vittoria, è la stessa cosa che accade a me quando penso all’assassinio di Moro, alle stragi di Capaci e via D’Amelio, alla Guerra del Golfo o all’11 settembre: è paradossale, lo so, ma le nostre vite tendono a essere scandite più dalle tragedie che dai momenti di gioia. Si tratta di un paradigma che ognuno di noi dovrebbe sforzarsi di ribaltare, imparando ad avere più cura dei ricordi belli, senza che ciò significhi dimenticarci di quelli che ci fanno male.
Questa pagina difficile e dolorosa della storia d’Italia – la nostra storia – è arrivata quasi di sorpresa, come il colpo di scena che tutto a un tratto scompagina la trama di un romanzo o di un film: il coronavirus ha cambiato le carte in tavola a miliardi di persone in tutto il mondo, mandando all’aria programmi, sovvertendo regole e abitudini, e sgretolando certezze all’apparenza granitiche ma che, di fatto, camminavano su gambe d’argilla.
Mentre ti scrivo siamo probabilmente soltanto all’inizio di questa prova durissima e se mi volto vedo il Tricolore che poco fa ho appeso a una delle finestre del nostro ufficio e guardandolo vedo le nostre Forze dell’Ordine, l’Esercito, tutto il personale medico e infermieristico impegnato in prima linea, i sindaci delle grandi città e dei paesi di provincia, i volontari della Protezione Civile e delle associazioni, le persone in pena per un parente o un amico che sta male, gli imprenditori e i professionisti che già pensano a come ripartire, i lavoratori che rischiano la pelle per garantirci i servizi essenziali, immagino come e quanto mio padre si sarebbe impegnato per gestire quest’emergenza in città e penso a come, da editore di un minuscolo giornale online, io possa riuscire nell’impresa di andare oltre le parole.
O meglio, sfruttare la loro grande e meravigliosa forza come una leva per sollevare, se non tutto il problema, almeno qualcuno dei macigni che ci opprimono.
Sono convinto che scavare, come stiamo facendo da quando siamo nati, in cerca di verità scomode di cui nessun altro vuole parlare sia un dovere, così come è doveroso offrire informazioni sempre corrette e verificate, anche se credo che non sia abbastanza. Per come la vedo, in questo momento andare oltre significa risvegliare le coscienze – la mia per prima – dal torpore in cui si sono crogiolate per anni: sì Vittoria, perché il modello di società che ci hanno cucito addosso e che spero sapremo ricostruire daccapo, ci ha indotti silenziosamente a indignarci, ma fino a un certo punto; a voler cambiare le cose, ma fino a un certo punto; a essere disposti metterci in gioco, ma fino a un certo punto.
Forse sì, era necessario che ci si materializzasse davanti la morte per risvegliarci e per farci comprendere che i nostri «fino a un certo punto» corrispondono all’inizio degli spazi smisurati di libertà d’azione che concediamo a chi, poi, decide per noi.
Il malgoverno delle ultime settimane e degli ultimi decenni non è colpa dei politici incapaci o in malafede, dei tecnocrati europei o dei burocrati de noantri, ma solo e unicamente nostra, che abbiamo preferito lamentarci e piangerci addosso anziché impegnarci direttamente, e anche quando lo abbiamo fatto, o ci siamo lasciati mettere sotto incantesimo dall’Anello del Potere oppure abbiamo mollato troppo presto.
Lo so, Vittoria, che abbiamo tutti il lavoro, la famiglia e gli impegni del quotidiano, ma finché ognuno di noi non comincerà a rinunciare a qualcosa per questa nostra Italia, allora significherà che siamo noi stessi i fautori del giogo a cui, alla fine dei conti, per pigrizia e comodità siamo disposti a rimanere incatenati.
Nel frattempo il sole comincia a calare, mi soffermo ancora per un attimo sul nostro Tricolore che se ne sta lì, senza muoversi di un millimetro, e da lui mi faccio accompagnare tra i volti e le storie di chi, prima di noi, per quella Bandiera ha avuto il coraggio di dare tutto.
Tra i volti di tanti patrioti mi viene in mente quello di Fabrizio Quattrocchi, inevitabilmente penso alla frase che pronunciò sfidando la morte e immediatamente nella testa e nel cuore sopraggiungono le parole che vanno oltre, che rappresentano il concetto, che fermano il momento e danno voce al grido che mi si strozzava in gola: «Vi facciamo vedere come reagiamo noi Italiani.»
Proprio così Vittoria, e un giorno lo racconterai ai tuoi figli. Te lo prometto.