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POLITICA USA

Perché Sanders è crollato?

Dopo che Bernie Sanders ha perso il Super Tuesday, aveva senso che restasse in gara sperando di riaccendere le primarie con una vittoria in Michigan il 10 marzo. Dopo la sconfitta  proprio in quello stato, aveva senso parlare di riorganizzazione e di costringere Joe Biden a uno scontro frontale nel dibattito, lasciando una speranza accesa in vista di martedì 17 marzo.

Poi Joe Biden ha fatto lo stretto necessario nel dibattito tenutosi senza pubblico a Washington D.C. e ha stravinto in Florida, Illinois e Arizona.
Ora Sanders ha perso ancora una volta, ma non vuol sentir parlare di un possibile ritiro, tanto da reagire male quando qualcuno accenna all’ipotesi.

Eppure i segnali di un possibile ritiro ci sono tutti: il senatore ha sospeso gli annunci su Facebook, Biden è avanti di troppi delegati (le ultime stime parlano di 1.231 delegati per l’ex vicepresidente contro i 929 di Sanders) e le sconfitte arrivano con distacchi a due cifre molto pesanti.
Tutto questo era impensabile fino al 28 febbraio.

Analizzando i dati elettorali negli Stati in cui si è votato, si nota come Sanders abbia perso dove quattro anni fa stravinceva.

Questo significa che la base elettorale del socialista si è completamente sfaldata e, nonostante il carico da novanta meglio noto come Alexandria Ocasio-Cortez, universalmente riconosciuta come l’astro nascente in casa democratica, Sanders ha perso i voti proprio dove era sicuro di riconfermarli.
Certo è che conferma di essere, in larga misura, la prima scelta fra i giovani, ma è altrettanto vero che ha vinto solo otto (nove se si aggiunge il voto popolare in Iowa) corse su ventinove.

Quattro anni fa, con alcune differenze nel calendario delle primarie, Sanders aveva vinto dieci sfide, fra cui quelli che oggi ha perso, come Michigan, Oklahoma, Minnesota, Idaho e Maine. In Illinois, ad esempio, quattro anni fa aveva perso dell’1.8%, praticamente un pareggio. E poco importa importa se Sanders ha conquistato la California che quattro anni fa aveva preferito Hillary.
Sanders è stato addirittura capace di ridurre drasticamente il suo margine di vittoria in Vermont, passando dal +72% del 2016 al +28% del 3 marzo. Inoltre, Sanders aveva vinto di 45 punti percentuali, sempre nel 2016, lo stato di Washington. Il 3 marzo ha perso questo margine e lo stato è finito a Biden. Anche in Utah si è registrato lo stesso calo: nel 2016 Sanders vinse 79.3%, oggi ha vinto con il 34.8%.

L’elettorato di Sanders, sostanzialmente, non è più lo stesso di quattro anni fa. Ha perso voti nelle grandi città, fra la gente di colore, nonostante fosse fra gli oratori durante il Martin Luther King Day e nonostante l’endorsement del reverendo Jesse Jackson. Il problema è Sanders? Apparentemente non solo.

Gli ottimi risultati del senatore nel 2016, secondo alcuni sono dovuti al fatto che, in ogni stato dove Sanders ha superato il 30%, anche lo 0.1% in più era un voto di protesta contro Hillary Clinton. Joe Biden, sempre secondo questa corrente di pensiero, non è Hillary Clinton.
Per questo, taluni sostengono che l’elettorato di Sanders è più o meno lo stesso e che Joe Biden, a seguito della vittoria in South Carolina e dei continui endorsement a suo favore, non ultima Tulsi Gabbard, fresca di ritiro, ha creato una macchina molto più forte di quella progressista del socialista del Vermont.

A sostegno di tale visione, occorre sostenere che non si è mai visto un cartellone con scritto “Chiunque tranne Joe”, cosa che, nel 2016, era accaduta contro l’ex first lady. Biden, infatti è meno divisivo e più polarizzante rispetto alla Clinton.

Inoltre, Sanders raccoglie numericamente meno voti del 2016. Quindi la visione sopra esposta non è totalmente vera. Anzitutto coloro che non avrebbero votato Sanders in partenza, non si sono schierati con lui dopo il ritiro dei loro candidati. Biden in questo è stato da maestro dei manuali di elezioni. Ciò è dimostrato anche dal fatto che Biden ha vinto stati in cui non è mai stato presente, nei quali non ha mai aperto comitati elettorali, nei quali non ha investito in pubblicità e nei quali, quarantotto ore prima del voto, era sotto nei sondaggi.

Ma non è tutto qui. The New York Times, un paio di giorni fa, si chiedeva se «gli Stati Uniti avessero giudicato male Bernie Sanders oppure se fosse stato Sanders a giudicare male gli Stati Uniti». Negli elettori che nelle urne guardano a novembre, Biden ha un maggiore appeal rispetto a Sanders, mentre Sanders quattro anni fa andava molto meglio stando agli entrance poll. E ancora: gli elettori di colore che nel 2016 hanno tradito Hillary nelle sfide chiavi stanno ora conducendo, con maggioranze bulgare, Biden verso la nomination. Ciò comporta ovviamente per Biden il dover acquistare la fiducia dell’elettorato di Sanders in vista di novembre, ma il Joementum non sembra conoscere difficoltà.

A differenza di Hillary contro il Bernie del 2016, Biden ha vinto alla grande in stati come Virginia e North Carolina ma non solo nelle aree suburbane; ha registrato un’alta percentuale di consensi fra coloro che hanno frequentato il college e, soprattutto, nelle zone rurali e prevalentemente di classe operaia di stati come il Minnesota, l’Oklahoma e il Maine che Sanders aveva vinto quattro anni fa con vittorie schiaccianti.
In sostanza, in tutti gli stati in cui si è votato dal Super Tuesday in poi, Sanders ha perso, anche negli stati in cui ha vinto, voti.

In alcuni casi la perdita è stata comunque non dolorosa – Colorado e Utah, causa vittoria – in altri casi, ad esempio in Maine, è passato dall’aver vinto tutte le contee ad aver perso lo stato.

Tuttavia, non c’è motivo di ritenere che, salvo una tragedia politica di Biden, gli elettori possano cambiare improvvisamente idea. Sanders non è come il Jimmy Carter del 1976, il Bill Clinton del 1992 o il Barack Obama del 2008, non è quel candidato capace di destabilizzare gli elettori con una presenza forte sulla scena come i sopracitati. Poteva esserlo nel 2016, non oggi. Sia Sanders che Biden, parlando in termini aziendali, sono marchi noti e da usato sicuro, ma Biden sembra essere più affidabile – per l’establishment – rispetto al collega.

Sanders ha costruito un movimento con idee ben definite e che avrà in nuovi volti le stesse idee che il socialista predica in giro per il Paese. Però, non fa bene a questo movimento inanellare una serie di sconfitte come quelle delle ultime due settimane. Se l’obiettivo è quello di battere Donald Trump serve, per riuscirci, anche che l’ala più a sinistra del partito converga su Biden.
Per quanto esposto, dunque, sorge una domanda spontanea: perché Bernie Sanders è ancora candidato alla Presidenza?

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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