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Make Web Free Again: Trump sfida i colossi della Rete

C’è una sola cosa che Donald Trump adora più di essere sottovalutato: essere sottovalutato due volte. Mettete da parte la simpatia o l’antipatia che nutrite per lui, perché è l’unico modo per comprendere il solo a possedere la forza d’urto necessaria per riallineare i pianeti del Web, riportandolo a una dimensione più “umana”, ovvero quella che antecedente all’uscita degli smartphone.

Era il 9 gennaio del 2007 e da San Francisco Steve Jobs presentava il primo iPhone, ovvero l’archetipo degli apparecchi che noi tutti possediamo e che ci hanno connessi alla Rete 24 ore al giorno, esponendoci a un flusso di input paragonabile a quello che riceveremmo collegando un cavo in fibra ottica al nostro cervello.

Prima di allora accedevamo a Internet dal nostro computer e, una volta spento quello, eravamo liberi. Un concetto di cui ho scritto nel mio editoriale di qualche giorno fa, in cui mi sono occupato del ruolo che Facebook gioca nelle esistenze di ognuno di noi.

Ora vi starete domandando cosa c’entri Trump con tutto questo. Tanto per cominciare, con la campagna che gli consegnò la storica vittoria dell’8 novembre 2016, il tycoon newyorkese introdusse definitivamente il principio di orizzontalità dell’informazione, rivolgendosi direttamente all’enorme platea costituita dai suoi follower e, indirettamente, a tutti gli altri.

Comunica senza filtri, bypassando i media tradizionali, costretti a inseguire suoi tweet e a riportarli nei loro giornali e notiziari.

Ovvio che il suo inaspettato successo abbia fatto scattare l’allarme tra i giganti del Web, al punto che, come riportammo poco più di un anno fa, un’importante dirigente di Google, Jen Gennai, si lasciò scappare che «nel 2016 siamo stati tutti fottuti: noi, la gente, i giornali. Tutti fregati» e che, quindi, «stiamo lavorando sui nostri algoritmi per evitare che Trump possa essere confermato».

Schermaglie che sono figlie di una guerra che fino a un anno fa è si è combattuta a bassa intensità, per poi deflagare a seguito di una serie di “censure” di profili di untenti dell’area conservatrice, a cui hanno fatto seguito le minacce del presidente, sfociate nello studio di un ordine esecutivo atto a difendere la libertà di parola degli americani e financo a minacciare la chiusura delle piattaforme che non rispettino tale principio.

Spauracchio che Trump ha rispolverato alcune ore fa, minacciando la chiusura di Twitter a seguito della segnalazione di due suoi tweet, bollati come “fuorvianti”, scrivendo che «i repubblicani sentono che i social media censurano le voci dei conservatori. Li regolamenteremo oppure li chiuderemo perché non possiamo permettere che questo accada. Abbiamo visto cosa hanno cercato di fare, e non gli è riuscito nel 2016. Non possiamo permettere che questo accada di nuovo, in maniera più subdola. Proprio come non possiamo permettere che elezioni via posta diventino un metodo radicato nel Paese»

Come spieghiamo qui, a causa del coronavirus la sfida tra lui e Biden si sta giocando tutta online, essendo di fatto impossibile (al momento) organizzare eventi pubblici. Ma c’è un però. Trump ha davvero il coraggio di far saltare il banco oscurando quelle stesse piattaforme che gli consentirono di vincere tre anni e mezzo fa, oppure sta bluffando per riportarle a più miti consigli (la stessa tattica che utilizzò con Kim Jong-un, per intenderci)?

Conoscendolo, da lui possiamo aspettarci davvero di tutto, compresa l’ipotesi che lui e i suoi stiano lavorando a una piattaforma alternativa capace di portare via milioni di utenti a Facebook, Twitter e compagnia cantante.

Certo è che il regime di duopolio con cui Facebook e Google dominano incontrastati i mercati di informazione e comunicazione non potrà durare in eterno e che, prima o poi, qualcuno o qualcosa ci libererà, almeno parzialmente, dalla dittatura dei click, dei like e degli algoritmi che decidono per noi.

Make Web Free Again!

Written By

è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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