Ieri ho ascoltato con attenzione l’intervento con cui il Presidente Mattarella ha aperto i lavori della maratona digitale “Quale futuro” promossa dal ministro Spadafora e, francamente, credo che riguardo all’obiettivo di avvicinare i giovani alla politica sia andato completamente fuori bersaglio.
Lo dico con il rispetto che si deve al Capo dello Stato ma senza alcuna remora nel manifestare la mia delusione per l’ennesima occasione sacrificata sull’altare del politicamente corretto e della difesa dello status quo, senza osare la benché minima autocritica rispetto a un sistema – quello politico – che da decenni è avvitato su se stesso.
«Le grandi trasformazioni politiche e sociali intervenute negli ultimi decenni hanno in qualche modo affievolito i canali tradizionali di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica un divario sempre più evidente che è stato in parte surrogato dalla massiccia presenza dei nuovi mezzi di comunicazione fondati sull’utilizzo del Web che, peraltro, non ha ancora trovato un punto di adeguata maturazione», ha detto il Presidente Mattarella dopo aver sottolineato che la «freddezza e la diffidenza dei giovani rispetto alla politica e la sempre più rara disponibilità a un confronto circolare, di idee, di proposte, di suggestioni rendono la comunità nazionale più fragile».
Ricapitolando: i giovani sono freddi, diffidenti e poco disponibili al confronto e, ad aver affievolito (eufemismo, ndr) la voglia di partecipare, sarebbero state non meglio specificate «grandi trasformazioni politiche e sociali» che hanno favorito il trasloco dell’impegno politico dalla dimensione reale a quella digitale.
Peccato che le cose stiano in modo leggermente diverso. Anzitutto andrebbero chiamate con il loro nome, anche perché – gendarmi della memoria permettendo – si tratta di fatti che quei ragazzi hanno studiato o studieranno sui libri di storia.
Il crollo delle ideologie seguito a quello del Muro di Berlino, la rivoluzione digitale, le stragi di mafia, lo scandalo di Tangentopoli che azzerò un’intera classe politica, gli attentati dell’11 settembre, l’ingresso nell’Euro, un processo di globalizzazione gestito con irresponsabile superficialità, la crisi economica del 2008 e, oggi, il Covid-19.
Questi alcuni tra gli eventi più importanti degli ultimi 31 anni, le cui dinamiche non sono state gestite da un infernale algoritmo o dallo Spirito Santo, ma dalla politica e dai politici che hanno sempre agito unicamente in funzione del consenso e dell’autoconservazione, anche quando il Web era ancora ben lungi dall’essere inventato.
Allora, ai nostri giovani possiamo dire che abbiamo un sistema che ha partorito 66 governi in 74 anni che è, ahinoi, sinonimo d’instabilità e di una politica votata ai compromessi al ribasso? Oppure che nel 2005 – il Parlamento, non gli Utenti di Facebook – introdusse una legge elettorale che tolse ai cittadini la possibilità di scegliere da chi farsi rappresentare? E che da allora i parlamentari vengono nominati a tavolino dai 4 o 5 segretari di partito?
Non sarebbe il caso di spiegare ai ragazzi che quel sistema di voto ha consentito ai partiti di dismettere quasi completamente la loro attività sul territorio in quanto non più bisognosi di coltivare i loro allevamenti di preferenze? Che sono praticamente spariti circoli, movimenti giovanili e studenteschi e scuole di partito? Che ora la militanza è ben accetta soltanto durante le campagne elettorali?
Per non parlare, poi, dei danni causati dalle classi politiche che si sono avvicendate: debito pubblico, classe media disintegrata, produzione regalata alla Cina, introduzione dell’Euro disastrosa, riforme manco a parlarne, investimenti in scuola, ricerca, innovazione, cultura e turismo del tutto insufficienti, incapacità di stimolare unità e patriottismo.
Tutto questo è colpa della politica? In larghissima parte, ma non del tutto: bisogna essere intellettualmente onesti fino in fondo e ammettere che nemmeno noi, ovvero il popolo, abbiamo fatto abbastanza. Ci saremmo dovuti ribellare impegnandoci in prima persona, ma non lo abbiamo fatto o, peggio ancora, ci siamo illusi di poter fare la scarpetta con gli avanzi del sistema.
Se c’è qualcuno che non ha colpe sono proprio loro, i nostri giovani, a cui lasciamo un Paese ridotto a brandelli sin dalle fondamenta, ovverossia dall’identità.
Che siano «freddi e diffidenti» è il minimo, Signor Presidente; quanto invece alla poca disponibilità al confronto sarebbe forse più appropriato puntare il dito altrove, ma per farlo ci vorrebbe il coraggio che a questa politica è sempre mancato.