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Politica

La strage di Ustica tra complottismo e realtà (seconda parte)

Un missile? La battaglia aerea? La collisione con un caccia alleato? Nelle tristi commemorazioni del quarantesimo anniversario per la strage di Ustica, la politica italiana ai suoi più alti livelli ha dimostrato di non aver mai letto le carte del processo penale. Orwell l’ha fatto per voi. Dopo quella di ieri, ecco la seconda puntata.

 

 

Vale appena la pena di ricordare che il lungo processo penale si è basato su un’immensa massa di perizie, affidate a una 11 tra i più qualificati tecnici a livello internazionale (e nessuno di loro era francese o americano), la stragrande maggioranza dei quali convinti il volo fosse caduto per una bomba esplosa nella toilette posteriore del Dc9. Di quella tesi anche i tre pubblici ministeri di primo grado, Giovanni Salvi (oggi procuratore generale in Cassazione), Vincenzo Roselli e Settembrino Nebbioso, sembravano molto convinti.

Di certo, quei tre magistrati inquirenti non credevano affatto al missile. A pagina 229 della requisitoria che avevano consegnato al giudice istruttore Rosario Priore, i pm Salvi, Roselli e Nebbioso avevano scritto: «L’ipotesi che il Dc9 sia stato colpito da missili è priva di supporto probatorio per ciò che concerne gli elementi desumibili dall’esame del relitto». Al contrario, i tre pm si dicevano molto più propensi a credere alla bomba: «L’esplosione all’interno dell’aereo in zona non determinabile di un ordigno» sostenevano a pagina 404 «è la causa della perdita del Dc9 per la quale sono stati individuati i maggiori elementi di riscontro. Certamente, invece, non vi sono prove dell’impatto di un missile o di una testata».

Insomma, se il giudice istruttore Priore alla fine si era orientato verso l’ipotesi della battaglia aerea e del missile, lo aveva fatto contraddicendo le convinzioni dei suoi tre pubblici ministeri. Poi, però, è stata la giustizia penale a contraddire dalle fondamenta l’ipotesi di Priore. Non fu né missile, né battaglia aerea. Tredici anni fa, assolvendo i generali da ogni accusa, i supremi giudici hanno confermato le conclusioni cui il 15 dicembre 2005 era giunta la Corte d’assise d’appello di Roma. Alle pagine 114 e 115 di quella sentenza si legge: «Nessun velivolo ha attraversato la rotta dell’aereo Itavia, non essendo stata rilevata traccia di essi dai radar militari e civili, le cui registrazioni sono state riportate su nastri da tutti i tecnici unanimemente ritenuti perfettamente integri». La sentenza prosegue con estrema chiarezza: «A ciò vanno aggiunti i vari accertamenti da cui risulta che tutti gli aerei militari italiani erano a terra, che i missili di dotazione italiana erano tutti nei loro depositi, che gli aerei militari alleati non si trovano nella zona del disastro, e che nell’ora e nel luogo del disastro non vi erano velivoli di alcun genere».

Poco più in là, i giudici aggiungono una frase che, sull’ipotesi missile, suona definitiva: «Le ipotesi dell’abbattimento dell’aereo a opera di un missile (…) non hanno trovato conferma, dato che la carcassa dell’aereo non reca segni dell’impatto del missile». I giudici smentiscono anche la tesi della collisione in volo con un caccia, in quanto «con ragionevole certezza tutti gli esperti, dopo un attento controllo sul relitto ricostruito, hanno escluso che su di esso fossero presenti tracce caratteristiche d’impatto con altro velivolo».

Le conclusioni sono nettissime: «Tutto il resto, non essendo provato, è solo frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda, un intervento della Libia, la presenza sul posto del suo leader Muammar Gheddafi, e così via, fino a cercare di escogitare un (falso) collegamento con la caduta di un Mig di nazionalità libica avvenuto in data successiva».

Insomma, la giustizia penale cassa duramente tutte le ipotesi suggestive che per decenni film, piece teatrali, libri e articoli di giornale hanno indotto nell’opinione pubblica. Missile, battaglia aerea e collisione con un aereo da caccia, per la giustizia penale, sono soltanto invenzioni.

Quindi la verità giudiziaria contraddice in pieno la diversa e discutibile «verità» che da anni è stata universalmente accreditata, e alla quale sembra credere anche il presidente grillino della Camera, Roberto Fico, quando chiede a Stati Uniti e Francia di collaborare alle indagini.

In primo grado, il Tribunale di Roma aveva ammesso invece che sull’ipotesi della bomba a bordo del Dc9 esistevano «prove oggettive, consistenti in particolari deformazioni e improntature di frammenti tutti provenienti dalla zona toilet, e certamente determinatesi al momento del collasso in volo della parte di struttura adiacente alla toilet, i quali erano spiegabili solo con elevati valori di pressione generatisi nella zona in esame».In particolare, secondo alcuni periti, un tubo della toilette presentava chiare tracce di una «compressione da esplosione».

Ma nemmeno quella tesi è passata. Perché la giustizia penale ha detto «No» anche all’ordigno: «Nel caso della bomba all’interno dell’aereo» si legge nella sentenza d’appello, poi confermata definitivamente in terzo grado nel gennaio 2007, «bisogna ritenere che l’ignoto attentatore fosse a conoscenza del dato che l’aereo sarebbe partito da Bologna con due ore di ritardo per poter programmare il timer con due ore di ritardo per l’esplosione, visto che di criminali kamikaze che potessero essere a bordo non vi era traccia».

È una logica inoppugnabile, va ammesso. Ma la stessa logica, alla fine del processo penale, ha escluso con molta più forza le presunte «verità» cui ormai l’Italia si è assuefatta. Il rifiuto dell’ipotesi della battaglia aerea, scrivono per esempio i giudici penali, «trova conforto anche nel silenzio di un aereo dell’Air Malta, che seguiva a breve distanza il velivolo Itavia ed è atterrato tranquillamente a Malta senza segnalare alcunché di irregolare lungo la sua rotta: se vi fossero stati altri velivoli, certamente li avrebbe visti e comunicati».

I giudici, insomma, cassano le ipotesi missile, battaglia aerea, collisione con il caccia americano o francese. E lo fanno con parole durissime: queste ipotesi sono «fantapolitica o romanzo, che potrebbero anche risultare interessanti se non vi fossero coinvolte 81 vittime innocenti».

È vero che poi c’è la giustizia civile. Che è andata per la strada opposta. Partendo però non da analisi perizie e da approfondimenti tecnici imponenti, com’è avvenuto in sede penale, bensì da una sentenza depositata il 25 luglio 2003 nel piccolo tribunale di Bronte (Catania) e poi a Roma dal giudice onorario aggregato Francesco Batticani: un Goa, insomma, cioè un avvocato con funzioni di giudice. Tredici anni fa, il Goa Batticani stabilisce che il Dc9 sia stato abbattuto da un missile, ma lo decide senza alcuna prova.

Il problema è che da quella sentenza, inevitabilmente irrisoria per peso tecnico e per disparità di approfondimenti rispetto alla verità stabilita dalla giustizia penale, è poi uscito un cumulo di sentenze, dagli esiti a volte grotteschi. Una condanna di primo grado del Tribunale di Palermo del 10 settembre 2011, per esempio, accredita più cause parallele del disastro, e non riesce nemmeno a sceglierne una.

I giudici scrivono nella stessa frase, testualmente, che il jet Itavia è caduto «a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto, oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto e il Dc9.

Questa giustizia sdoppiata tra penale e civile, in realtà, ha una sola giustificazione tecnica: e cioè un diverso effetto economico. Perché se la causa della strage fosse stata individuata riconosciuta nel cedimento strutturale dell’aereo o nella bomba a bordo, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza del Dc9 sarebbe ricaduta sull’armatore dell’aereo, cioè l’ltavia, che però nel frattempo è fallita. Se invece la causa fosse stata un missile o una battaglia aerea che aveva coinvolto caccia americani e francesi, la responsabilità sarebbe ricaduta sullo Stato italiano, che non aveva saputo proteggere i suoi cieli.

E alla fine così è andata. La giustizia civile ha condannato i ministeri dei Trasporti e della Difesa a pagare diversi risarcimenti ai familiari delle 81 vittime. Prima hanno ricevuto indennizzi individuali per 200 mila euro, un totale di quasi 16 milioni. Poi, nel 2004, in 141 hanno ottenuto anche un vitalizio di 1.864 euro netti mensili, rivalutabili di anno in anno, per un totale stimato di 47 milioni alla fine del 2019. Il paradosso finale è che la giustizia civile lo scorso 20 aprile, sempre per la tesi mai provata del missile, ha condannato in via definitiva lo Stato a risarcire anche gli ex proprietari dell’Itavia, cui ha riconosciuto 330 milioni di euro.

È ovvio che le povere 81 vittime e i loro parenti debbano avere giustizia. Ma va ricordato come l’Avvocatura dello Stato, cioè l’istituzione che difende gli interessi pubblici nei giudizi civili, abbia cercato di opporsi alla condanna dello Stato stesso. E che lo abbia fatto con parole nette. Nel 2013 dopo la prima condanna della terza sezione civile della Cassazione (la numero 1871 del 28 gennaio 2013), l’Avvocatura aveva segnalato al governo che quella sentenza era assolutamente da impugnare in quanto sbagliata dalle fondamenta.

La Cassazione civile, infatti, aveva scritto che era stata «abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile», mentre l’Avvocatura al contrario segnalava al governo che si trattava di un «errore di fatto, risultante dagli atti (…), laddove è pacifico che tra gli atti non figura materialmente alcuno degli elementi di prova posti a fondamento della sentenza del Goa (cioè il giudice onorario aggiunto Batticani, ndr), richiamata anche dalla Corte d’appello».

Insomma, sette anni fa l’Avvocatura segnalava al governo che i giudici civili si erano lasciati abbagliare dalla tesi del missile, una tesi in realtà totalmente priva di prova. Il governo, però, decise diversamente da quanto gli suggerivano i suoi avvocati. Nel 2013, il presidente del Consiglio Enrico Letta decise infatti di lasciare cadere ogni difesa in sede civile: «Il governo» scrisse Letta «non ha intenzione di impugnare la sentenza con cui la Cassazione ha condannato lo Stato a risarcire i familiari delle vittime di Ustica. (…) Questa determinazione è motivata soprattutto da ragioni di ordine etico, per il dovuto rispetto delle vittime e ai loro familiari. La sentenza definitiva della Cassazione andrà semplicemente eseguita». Così è stato. Ma la verità, quella vera, non la sa ancora nessuno.

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