Il Regno Unito bandisce il colosso cinese Huawei: non parteciperà più alla costruzione della rete 5G inglese perché rischia di essere il «cavallo di troia» tecnologico per il regime di Pechino. È quanto sostengono da anni gli Stati Uniti. Hanno ragione? Che cosa deciderà ora l’Europa? E che cosa farà l’Italia? Dopo quella di ieri, ecco la seconda puntata.
Il mondo e il 5G
L’offerta commerciale 5G è presente oggi in 11 Paesi europei: Germania, Regno Unito, Olanda, Irlanda, Spagna, Italia, Austria, Finlandia, Lettonia, Ungheria e Romania (dati European 5G observatory dell’Ue). Sono ferme a uno stadio più arretrato Francia (il 5G è attivo in parte a Parigi e Lione) e Svezia (solo a Stoccolma).
Il 5G è attivo anche in Cina, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, India, Sud Africa, Arabia Saudita, Dubai, Bahrain, Qatar, Russia, Svizzera, Messico, Cile, Brasile, Singapore, Giappone, Corea del Sud.
In Italia si sta ancora lavorando alle nuove reti. Il 5G è disponibile commercialmente in alcune parti d’Italia. Vodafone ha servizi attivi a Milano e hinterland, Roma, Torino, Bologna e Napoli; le città dovrebbero essere 50 a fine 2020 e 100 a fine 2021. Tim è presente a Torino, Roma, Napoli, Genova, Brescia, Bologna e Bari, e Milano è pronta a partire; entro il 2021 le città coperte saranno 120. Wind-Tre dovrebbe attivare la rete sperimentale 5G a fine luglio. Fastweb ha appena annunciato che il lancio dei servizi inizierà da settembre. Iliad ha annunciato che avvierà i servizi a fine 2020 o nel primo trimestre 2021.
La polemica «salutista»
In Italia, finora, Huawei non è additata come partner pericoloso. La polemica non corre tanto sull’aspetto strategico-militare o politico del 5G. Le critiche al nuovo standard, in gran parte strumentali, hanno un’anima più ambientale e salutista: il 5G incontra resistenze soprattutto tra gli ambientalisti e negli enti locali. Oltre 400 Comuni hanno vietato le reti 5G. L’ultimo caso è avvenuto il 6 luglio a Reggio Calabria, dove il sindaco Giuseppe Falcomatà, del Pd, ha bandito il 5G.
Il governo di Giuseppe Conte, invece, è decisamente favorevole al 5G: nel decreto Semplificazioni, varato lo scorso 7 luglio, ha stabilito che i Comuni possano limitare la posa delle antenne ma solo «in siti specifici e non in aree generalizzate del loro territorio». E ha deciso che i regolamenti comunali non potranno discriminare le installazioni in base alla tecnologia di rete mobile, né modificare i tetti di emissioni elettromagnetiche previsti dalla legge nazionale.
In effetti, l’opposizione al 5G sta scatenando un’ondata di panico e quasi di isteria anti-modernista. Si suggerisce che il nuovo standard sia la causa di gravi danni alla salute. È una campagna che ipotizza malattie come linfomi, leucemie, cancro al cervello e della pelle.
Online furoreggia la teoria in base alla quale il 5G sarebbe stato il grande «facilitatore» del Covid-19: su internet si trovano addirittura mappe della pandemia che, sovrapposte a quelle della rete 5G, suggeriscono che quest’ultima sia tra le cause del virus.
A contraddire questa «teoria del complotto», però, sta il fatto che Wuhan non è stata la prima città al mondo dov’è stato impiantato il segnale 5G (è accaduto prima in altre 50 città cinesi, poi negli Stati Uniti), e che il virus in effetti ha colpito anche Paesi dove il 5G non è mai entrato, come l’Iran o la Malesia, mentre l’Italia – che pure ha avuto livelli di mortalità tra i più alti al mondo – non è certo all’avanguardia nel 5G.
Quanto ai rischi per la salute, è vero che il nuovo standard viaggia con frequenze più elevate rispetto a 2G, 3G e 4G, ma la sua rete di antenne usa segnali di potenza inferiore. In giugno la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni ionizzanti (Icnirp), un’emanazione dell’Organizzazione mondiale della sanità con sede in Germania, ha certificato che le emissioni 5G sono «simili a quelle delle precedenti tecnologie, come il 4G», e che «il 5G non è in grado di causare danni».
In Italia Altroconsumo, un’associazione di consumatori di solito severa e restia a attribuire facili patenti di affidabilità, sostiene che «la rete 5G, per la capillarità delle antenne, l’intensità dei segnali necessari e le frequenze utilizzate, dovrebbe produrre un’esposizione limitata e dagli effetti negativi paragonabili o addirittura inferiori a quelli derivanti dall’uso delle tecnologie attuali».
Chi si oppone a Huawei, e perché
Molto più giustificate, al contrario, sembrano le motivazioni alla base dell’opposizione politica e strategica al 5G made in Huawei. Il colosso di Shenzhen, produttore di tecnologie tra le più avanzate nel ramo (e co-sviluppatore di molte delle reti in via di realizzazione in Europa e in Africa), è da tempo nel mirino degli Stati Uniti a causa dei suoi stretti collegamenti con il governo di Pechino, con cui da anni collabora nell’opera di penetrante controllo sociale e politico sugli utenti-cittadini.
La Casa Bianca ha più volte ammonito i partner a «non fidarsi di Huawei»: va detto che l’avversione coincide con l’interesse commerciale americano al veto, visto che le società statunitensi più attive nel 5G, come Qualcomm, sono anche le principali concorrenti di Huawei.
Malgrado le pressioni dehli Stati Uniti, in gennaio la Commissione Ue ha presentato una serie di raccomandazioni agli Stati membri per rendere più sicure le reti 5G, ma non ha escluso Huawei in via esplicita. Bruxelles ha però chiesto ai 27 Stati membri di far sì che i loro operatori evitino di essere «dipendenti da un solo fornitore» e d’impedire «la dipendenza da fornitori considerati a alto rischio».
Da questo punto di vista, il Regno Unito non è stato il primo Stato europeo a piegarsi alle pressioni americane. In marzo la Grecia ha bloccato lo sbarco di Huawei nella sua rete 5G, scegliendo come partner Ericsson. Londra, che in gennaio, quando David Cameron era a Downing Street, aveva detto sì alla partecipazione di Huawei alla costruzione della sua rete 5G, oggi bandisce la casa cinese «per motivi di sicurezza nazionale».
Il premier, Boris Johnson, ha deciso il dietro-front anche perché il Government communications headquarters, l’Agenzia governativa per la comunicazione e l’intelligence, ha segnalato con forza i rischi politico-strategici dell’azienda di Shenzen. Sulla scelta, poi, pesa di certo anche la brutale repressione delle proteste a Hong Kong da parte del regime di Pechino.
Il 7 luglio anche la Francia ha invitato le sue società a non collaborare con Huawei. Il direttore dell’Agenzia di sicurezza informatica, Guillaume Poupard, ha dichiarato: «Non sarà un bando totale, ma stiamo invitando gli operatori che non utilizzano ancora Huawei a non sceglierla come partner». La svolta è importante, perché Bouygues Telecom e Sfr hanno già metà della rete mobile realizzata da Huawei: «Agli operatori che usano Huawei» ha spiegato Poupard «daremo autorizzazioni di durata variabile tra 3 e 8 anni».
Orange, controllata dallo Stato, aveva già scartato Huawei preferendole le europee Ericsson e Nokia, e Alphalink, la quarta casa francese di tlc, ha accordi soltanto con Samsung.
La Germania sta giocando unapartita diversa. Il governo di Angela Merkel, infatti, ha appena confermato gli accordi tra Deutsche Telekom (partecipata al 14,5% dallo Stato) e Huawei, che nel 2020 produrrà il 65% di tutta la rete 5G installata in Germania. Ha invece abbandonato Huawei l’operatore Telefonica Deutschland, che realizzerà la parte più importante della rete 5G con Ericsson.
Viene da domandarsi perché mai gli Stati Uniti siano tanto aggressivi contro Huawei e non lo sembrino affatto nei confronti di Zte, l’altro colosso cinese attivo nel 5G. Eppure Zte ha un fatturato che nel 2019 è stato di 13 miliardi di dollari, con un utile netto di 0,9 miliardi, e in teoria potrebbe essere considerata anche più «pericolosa» di Huawei dal punto di vista strategico-politico, perché è controllata dallo Stato. Paradossalmente, invece, Zte non viene mai attaccata da Washington, e anche in Europa nessuno sembra considerarla un problema. Le ragioni sono due:
Al contrario di Huawei, Zte non è mai entrata sul mercato americano, quindi non fa concorrenza a Qualcomm o alle altre società Usa.
Ogni mossa di Zte nel mondo, e anche in Europa, è sottoposta a un rigido scrutinio da parte di funzionari del dipartimento Usa del Commercio: la misura fa parte dell’accordo stipulato nel 2018 tra Zte e Casa Bianca per revocare il bando mondiale che Wahington aveva imposto a Zte quando aveva scoperto che aveva violato l’embargo tecnologico alla Corea del Nord.
Huawei e l’Italia
Il prossimo Paese che dovrà decidere su Huawei sarà l’Italia, dove dal 2019 la casa cinese ha deciso d’investire 3,1 miliardi di dollari in ricerca e forniture. Il Movimento 5 stelle incarna l’asse filo-cinese del governo, e la Casaleggio associati, che è il retroterra aziendale del M5s, da anni collabora con Huawei. Ma ai primi di luglio il ministro degli Esteri grillino, Luigi Di Maio, ha incontrato l’ambasciatore Usa Lewis Eisenberg che avrebbe fatto pressioni contro il troppo spazio fin qui concesso a Huawei.
Nella maggioranza, intanto, il Pd lancia segnali di prudenza e i ministri più convolti nel dossier 5G (Roberto Gualtieri all’Economia; Lorenzo Guerini alla Difesa; Paola De Micheli alle Infrastrutture) potrebbero orientarsi a chiedere un supplemento di valutazione entro l’estate, in attesa di una presa di posizione dell’Unione europea sul 5G. Insomma, dopo Grecia, Regno Unito e Francia, anche l’Italia potrebbe invertire la rotta.
Va ricordato, peraltro, che non è una decisione facile. Nell’ottobre 2019, in un’audizione alla Camera, il presidente di Huawei Italia, Luigi De Vecchis, aveva minacciato il ritiro degli investimenti nel nostro Paese se Roma avesse modificato la linea favorevole all’azienda nel 5G.
Nel dicembre 2019 il Comitato parlamentare sui servizi segreti ha comunque approvato (coi voti di Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Pd e Italia Viva) la relazione scritta da Elio Vito, deputato di Forza Italia, che chiede al governo di «escludere le aziende cinesi dalla fornitura di tecnologia alle reti 5G» in nome della sicurezza. Oggi la Lega, FdI e parte del Pd tornano a chiedere a Conte di fermare l’avanzata cinese.
In base a uno studio realizzato dall’università di Oxford, se l’Italia chiudesse la collaborazione con la casa cinese i costi di sviluppo della rete lieviterebbero di 282 milioni l’anno nel prossimo decennio, e alla fine la rete costerebbe il 19% in più. Con gravi ritardi nello sviluppo del 5G: nel 2023 ci sarebbero 6,2 milioni di italiani in meno con accesso al nuovo standard.
E nel 2025 il Prodotto interno lordo italiano perderebbe 4,7 miliardi rispetto alle proiezioni attuali. Sono dati interessanti, però vanno letti con un’avvertenza fondamentale: lo studio è stato commissionato da Huawei.