Mentre i più erano ancora impegnati ad apprezzare l’ipnotica interpretazione dell’ex ministro Danilo Toninelli, che è riuscito, non senza una certa dose di talento recitativo, a dimostrare sul caso Benetton proprio l’esatto contrario di quanto andava annunciando, ci siamo imbattuti nella storia, decisamente più interessante, di Bari Weiss, l’ex responsabile commenti del New York Times.
Peraltro, la vicenda meriterebbe più di un’affrettata riflessione, perché la dittatura del politicamente corretto si sta diffondendo con una rapidità tale, ormai al pari della pandemia che ha investito il pianeta, da meritare una ferma risposta.
E sono proprio persone come la Weiss, collega dalla schiena dritta, che vive in una realtà spazialmente distante ma con dinamiche molto simili alla nostra, gli unici vaccini che abbiamo a disposizione per contrastare la sciagura del pensiero unico.
Perché purtroppo, giornalismo e libertà d’espressione non sembrano più andare d’accordo e chi guarda le cose da un’angolatura diversa viene confinato in uno spazio sempre più angusto (quando gli va bene).
O meglio, il rapporto pare incrinarsi quando la storia che il giornalista racconta, uso parole della Weiss tratte dalla lettera con cui spiega il motivo delle dimissioni presentate al Nyt, «È diventata effimera, modellata per soddisfare le esigenze di una narrazione predeterminata».
Perché, a quanto pare, sono state proprio le sortite nel terreno del «pensiero sbagliato» ad aver scatenato contro la brava giornalista una serie di reazioni scomposte, irrispettose e umilianti da parte di colleghi contagiati dal virus della censura preventiva.
Menti da considerare intellettualmente squagliate se incapaci di accettare un normale confronto di opinioni che dovrebbe essere, peraltro, la base su cui poggia qualsiasi tipo di contraddittorio.
E invece no. Perché i paladini del pensiero unico ortodosso, quello “ideologicamente kosher”, sfruttano la ricchezza fornita dalla diversità di vedute esclusivamente per alimentare la gogna del disprezzo.
Così, il fetore di certi commenti attraversa in un lampo l’Oceano, e giungono fino a noi utilizzando la corrente del web e la sua onda putrescente trasforma, per l’occasione, il mare della libera informazione nella latrina a cielo aperto tanto cara ai liberal de noantri.
Perché, uso sempre parole della Weiss (perfette pure alle nostre latitudini) «Il veleno online è giustificato, a patto che sia diretto contro i giusti bersagli».
Se il mondo s’è trasformato in un inginocchiatoio collettivo al solo scopo di promuovere, servilmente e a testa bassa, la causa progressista, noi di Orwell, come Bari Weiss oppure Samanta Leshnak, preferiamo restare fedeli ai nostri principi.
E, giocando di sponda in un improvvisato gioco di specchi fra opposti, possiamo definirci evolianamente in piedi sopra le rovine della libertà di espressione, pur nell’esigenza popperiana di alimentare i dubbi, senza possedere – a differenza di altri – la verità.
Per questo motivo, rileggere, ora, le parole con cui chiude la sua lettera Bari Weiss fa aumentare il disappunto ma, proporzionalmente, anche la voglia di lottare per una professione in grado di battersi per il confronto delle idee senza imposizioni preconfezionate dagli ultrà della “cancel culture” e promosse dagli attivisti dal cinguettio facile in servizio permanente effettivo.
«E mi sono sempre confortata con la convinzione che le idee migliori alla fine vincono. Ma le idee non possono vincere da sole. Hanno bisogno di una voce. Hanno bisogno di essere ascoltate. E soprattutto devo essere sostenute da persone disposte a rispettarle».
Se il giornalismo incardinato sul dibattito avesse il mare (fatto di idee), sarebbe una piccola Bari. Weiss.