Tema: aiuti ai paesi dell’Unione Europea per fronteggiare l’emergenza-coronavirus.
Svolgimento: 4 mesi di trattative per ottenere dei soldi il cui arrivo sarà condizionato al pieno ottenimento degli obiettivi fissati da Bruxelles, ovvero riforme strutturali come quella fiscale, delle pensioni e della giustizia. Che vuoi che sia… pinzillacchere, direbbe Totò.
Morale: l’accordo raggiunto alle 5.32 tra un Rutte e l’altro è come la “bodenza di fuogo” di contiana memoria, cioè fumo buono per i titoli dei giornali e i post autocelebrativi che il buon Casalino confeziona con cura per il suo presidente del Consiglio ma, in realtà, “il grano” arriverà se e quando l’Italia farà le riforme di cui sopra.
Ergo, considerando i tempi della politica italiana, tra bicameralismo perfetto, partiti e partitini che puntano solo all’autoconservazione e un sistema elettorale fatto apposta perché dalle elezioni non esca una maggioranza in grado di governare, ne riparleremo – forse – tra una ventina d’anni.
Nel frattempo, le imprese e i professionisti italiani oltre a continuare a non vedere il becco di un quattrino devono far fronte a questioni immediate come il fisiologico calo di produttività e indotto conseguente all’abuso dello smartworking (a chi afferma il contrario consiglio di farsi un giro in qualche azienda oppure nei ristoranti durante le pause pranzo), l’aumento delle spese, il crollo dei fatturati e il mancato rinvio delle tasse. Figuriamoci, poi, un taglio. Roba da fantascienza.
Attenzione, perché se imprenditori e professionisti vanno male, di conseguenza a farne le spese saranno anche i dipendenti, sia privati che pubblici, non si scappa.
Le riforme servono anche all’Europa
Se è vero che il fine dell’Europa era quello di aumentare il benessere dei cittadini europei, dobbiamo prendere atto che ha fallito miseramente. La trasformazione della nostra società, intesa come comunità di persone, culture e identità costantemente connesse tra loro, c’impone un sostanziale ripensamento rispetto ai vecchi schemi, inducendoci a immaginare l’Europa post-Covid come una vera e propria Community capace di utilizzare le già importanti quote di sovranità nazionale che le sono state cedute dai singoli Stati per riplasmarsi su di un modello economico e procedurale assai meno rigido e invasivo, nel rispetto delle particolarità, e quindi dell’interesse dei singoli Stati nazionali.
Community significa anche e soprattutto la fine di una gestione unidirezionale, la cui linea è stata dettata principalmente dalla tutela degl’interessi finanziari di ristretti gruppi di potere, a scapito di quelli – infinitamente più importanti – del popolo.
L’Europa a cui pensiamo dovrebbe ristabilire il primato della politica sull’economia ponendo, così, le basi per un effettivo rilancio dell’economia reale e, di conseguenza, per un concreto e costante aumento del benessere di ogni singolo cittadino europeo.
Un mutamento così radicale non potrà che passare attraverso un maggiore coinvolgimento dei popoli nelle decisioni, a partire dall’elezione diretta del Presidente della Commissione Europea, che dovrà essere a capo di un governo – espressione della volontà popolare – di carattere politico e non più tecnocratico.
Non s’illudano i signori di stanza a Bruxelles e Strasburgo (doppia sede doppi costi, alla faccia nostra) perché in mancanza di riforme profonde che riportino le lancette agli auspici dei Padri Fondatori, il destino dell’Unione Europea sarà inesorabilmente segnato: un Rutte qualsiasi la seppellirà.