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Economia

Il neoliberismo immaginario (parte seconda)

Nel sentir parlare di neoliberismo, spesso in accezione negativa, raramente si va a fondo a cosa significhi il termine e cosa preveda il modello proposto, sempre che esista veramente.
Ma è veramente un modello fallimentare?

Dalle puntate precedenti:

Nel sentir parlare di neoliberismo, spesso in accezione negativa, raramente si va a fondo a cosa significhi il termine e cosa preveda il modello proposto, sempre che esista veramente.
Ma è veramente un modello fallimentare?
La domanda principale, però, riguarda il fatto se mai si sia vista un’applicazione delle teorie che, generalmente, vengono raggruppate in questa categoria.

 

Parlando di John Maynard Keynes si indica un autore, generalmente, più citato che letto, sia dagli apologeti sia dai critici.

Come già si è detto, Keynes fu un autore eclettico che spaziò dalla matematica al suo essere un uomo di affari, dalla teoria della moneta alla redazione della sua Teoria Generale che è stato, comunque la si voglia vedere, il volume spartiacque nello studio dei fenomeni economici.

Oggi vi è, quasi, una mitizzazione della figura di questo autore e del suo pensiero, pardon, della vulgata sul suo pensiero visto da alcune parti come l’unica via per la sostenibilità di qualsiasi modello di sviluppo e da altre come l’origine di tutte le distorsioni esistenti e della filosofia “statalista”.

Non è così, entrambe le visioni derivano da scarse e errate letture, l’importanza di Keynes e delle sue intuizioni sono patrimonio di chiunque si approcci allo studio dell’economia e molti dei parametri oggi usati per la valutazione e la descrizione dei fenomeni economici derivano dal suo lavoro ma, al contempo, la sua elaborazione presenta diverse falle e criticità che sono, poi, state studiate e superate da altri economisti.

Per approfondire l’argomento, impossibile in questa sede per ovvie ragioni di sintesi, sarebbe utile affidarsi a qualche lettura come “Quando l’oceano si arrabbia. Keynes per chi non l’ha mai letto” di Luciano Canova per capire chi fosse Keynes e quale fosse il suo pensiero e “Tutti gli errori di Keynes. Perché gli Stati continuano a creare inflazione, bolle speculative e crisi finanziarie” di Hunter Lewis per comprendere come il suo pensiero, spesso frainteso, abbia portato a molte delle criticità che oggi vediamo in economia e che molti, come il Premier italiano Conte in un suo recente discorso, vadano ad addebitare al neoliberismo, errando palesemente.

Come si è già detto nella scorsa puntata, l’idea neoliberista, secondo la definizione data dalla Treccani, indica un modello che vada a tutelare la concorrenza e la lotta alle concentrazioni monopoliste per garantire da una parte la massima libertà possibile del mercato e di conseguenza anche degli esseri umani, partendo da quella politica.

È del tutto evidente che, se si volesse vedere, anche lo stesso Keynes potrebbe rientrare nella categoria poiché, come già si è detto, egli fu uno strenuo difensore dell’economia di mercato e del valore della libera concorrenza pur prevedendo un’azione diretta dello Stato in funzione anticiclica per fronteggiare le ricorrenti crisi economici a sostegno dell’occupazione e della domanda aggregata.

Non è un caso che l’economista inglese fu uno degli ispiratori di Bretton Woods e l’accordo che ne seguì fu una sintesi dell’idea di una valuta universale, il Bancor, di Keynes e quella della creazione di un ente sovrannazionale per la stabilizzazione monetarie di Harry Dexter White con la fissazione del gold exchange standard e del FMI.

Curioso che una delle critiche al sistema “neoliberista” di perseguire una stabilità delle masse valutarie a cui si oppone l’idea di “stampare moneta” venga anche da ambienti sedicenti keynesiani come, viceversa, da parte di alcuni oltranzisti della stabilità monetaria etichettino come keynesiane tutte le politiche monetarie espansive ma questa è solo un’immagine di come il dibattito odierno sia degenerato verso vere e proprie mitologie.

L’impianto keynesiano, abilmente manipolato, fu, poi, usato per giustificare l’interventismo degli stati in economia in occidente anche per fronteggiare quello che, all’epoca, era il nemico, il blocco comunista cioè, che poteva contare, almeno ufficialmente, su risorse illimitate per contrastare il modello “consumistico” e “imperialista” tipico degli stati fuori cortina.

Il crollo dei regimi comunisti, però, portarono alle prime crepe nei modelli di economia mista tipici dell’Europa occidentale dove le aziende di stato avevano creato dei settori protetti in cui operava, spesso, in monopolio, con alte tariffe e un livello di inefficienza riconosciuto anche a livello governativo.

Nel frattempo, il mondo si muoveva verso una progressiva liberalizzazione dei commerci e verso la creazione di un sistema normativo internazionale che potesse tutelarli. Nacque così il GATT, il General Agreement on Tariffs and Trade, che fu firmato nel 1947 e che, poi, proseguì con diversi “round” per perfezionarlo.

Dopo la “caduta del muro” e la fine dell’URSS, con il cosiddetto Uruguay Round, aperto nel 1986 e chiuso a Marrakech nel 1994, nacque la WTO e furono siglati i tre accordi fondamentali nell’ambito dell’apertura dei mercati: la novellazione del GATT, il GATS (General Agreement on Trade in Services) e il TRIPS (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights).

Possiamo dire che in quel momento si aprì realmente il processo di globalizzazione e, credibilmente, si posero le basi per la retorica anti neoliberismo odierna.

L’apertura dei mercati e la caduta delle tariffe doganali protezionistiche, ovviamente, spinse i mercati interni degli stati a cercare un grado di efficienza e di competitività maggiore, dovendo fronteggiare altre realtà caratterizzate da costo del lavoro e, spesso, tassazione più bassa si cominciarono a cercare nuove alternative ai modelli di economia mista esistenti.

In Italia, dove la critica al neoliberismo è tra le più feroci tra gli intellettuali sovranisti e bò-bò (in questo caso dalla stessa parte) e tra le forze politiche, il primo passo non fu quello delle liberalizzazioni dei mercati prima sotto monopolio statale e delle professioni ma quella delle privatizzazioni che, almeno inizialmente, portarono al trasferimento delle rendite monopolistiche da pubbliche a private con una perdita di utilità visibile tra i cittadini.

Qui si verificò il primo cortocircuito.

Da un lato si amplificò la retorica antistato da parte non delle frange anarchiche ma da quelle che cominciarono a definirsi libertarie che ipotizzavano la dismissione di ogni attività da parte dello stato e del “tutto privato” e dall’altra iniziò a insinuarsi la paura, fomentata da certe fazioni politiche trasversali dall’estrema destra alla sinistra extraparlamentare, che la globalizzazione dei mercati avrebbe portato a una contrazione dei salari reali e dei diritti delle persone, cosa che in un certo senso è avvenuta ma non per colpa delle dinamiche di mercato ma per l’esatto opposto cioè per il peso sempre crescente dello stato in economia, tramite burocrazia e tassazione, che ha spinto a svalutare l’unica componente produttiva aggredibile, il lavoro, per mantenere una certa competitività ma sulla cosa ci torneremo più avanti.

Il responsabile fu trovato in questa categoria definita “neoliberismo” che, in realtà, è un cappello sotto cui rientrano tutti i filoni economici diversi dal declinante marxismo e da quello post-keynesiano.

Inutile sottolineare le differenze metodologiche e di previsione tra i monetaristi e “austriaci”, ad esempio, ma nessuna di esse va negare l’opportunità che gli stati o il settore pubblico in senso lato possano essere attori in campo economico e non solo regolamentare, contrariamente a quanto sostenga la vulgata, il punto, come già ricordato, è la difesa dell’impianto di mercato e di concorrenza in cui tutti debbano agire che è prodromico alla tutela della libertà individuale anche politica, il nemico è stato scelto anche se in realtà si è visto poco nei decenni passati, soprattutto in questo Paese.

 

Leggi la prima parte dell’articolo

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