C’era una volta una banca, un istituto antico e dal nome prestigioso che rappresentava l’orgoglio di una città, di una nazione intera, forse, e che, dopo la tempesta che l’ha vista sull’orlo del crack, forse oggi si accinge a ricostruirsi un futuro.
Si parla del Monte dei Paschi di Siena, forse la più antica banca oggi ancora esistente, che dopo una crisi che, quasi, l’ha vista camminare sul ciglio del precipizio, i prestiti ponte a sostegno del patrimonio e la nazionalizzazione si accinge a ritornare sui mercati una volta ripulita dalla maggioranza dei crediti deteriorati ancora in pancia.
Prima di analizzare i piani che si prospettano per questo istituto, però, vale la pena fare un salto indietro di qualche anno, per capire cosa sia successo realmente.
Contrariamente ai casi, recenti, che molti ricordano per il clamore mediatico che ha generato le insolvenze, soprattutto, di Banca Etruria, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (più altre minori) i guai di MPS non nacquero da una gestione “allegra” del credito, che comunque ci fu e che portò alla crescita dei cosiddetti NPE tra gli attivi, ma da una gestione finanziaria al limite dell’Hedge Fund per poter sostenere le politiche di crescita dimensionale.
La causa prima, infatti, non va cercata in Toscana ma all’estero, esattamente con la questione ABN Amro: questa era uno dei più importanti colossi bancari al mondo, con filiali e attività sia in Europa sia, soprattutto, nel continente americano, e che, in Italia, aveva acquistato Banca AntonVeneta, una banca territoriale molto importante del nord est italiano.
Nel 2007 una cordata composta da Fortis Bank, Royal Bank of Scotland e Banco Santander lanciò un’OPA totalitaria sulla banca olandese, con lo scopo di acquisirne il controllo per, poi, effettuare un’operazione di “spezzatino”, dividendosi le aree della banca originaria secondo gli obiettivi strategici di ogni componente del pool: fu così che RBS si impossessò del settore finanziario, Fortis delle filiali presenti in Belgio, in Olanda e nel nord Europa in generale e Santander acquisì le filiali e gli attivi sudamericani più la controllata italiana.
Questo take over, però, fu infausto per due delle banche facenti parte del pool, le risorse impiegate, infatti, furono spropositate rispetto ai benefici apportati, questo generò una crisi di liquidità che portò Fortis al fallimento e rese problematica la solvibilità di RBS che stava fronteggiando una “fuga dallo sportello”, innescata dall’insolvenza di Northern Rock, che stava colpendo, in quel periodo, l’intero sistema bancario inglese.
Di lì a poco, quindi, Fortis fu smembrata, con l’acquisizione di sportelli e attivi in Belgio da parte di BNP Paribas e degli sportelli nei Paesi Bassi da parte dello stato olandese stesso per garantire la continuità de servizio agli utenti sotto il marchio storico di ABN Amro, mentre RBS fu nazionalizzata per evitarne il fallimento e fugare eventuali ripercussioni di sistema sull’intero settore bancario inglese.
L’unica che si salvò fu il Banco di Santander che, in effetti, acquisì le zone più promettenti gestite dall’originaria ABN Amro e cedette dopo pochi mesi la Banca AntonVeneta a MPS per oltre 10mld di euro che divenne, così, il terzo gruppo per dimensioni in Italia.
In quel periodo, va ricordato, la crescita dimensionale era considerato un asset strategico per tutte le banche e molti istituti, approfittando delle grandi operazione di M&A in corso, in primis quella tra Banca Intesa e il SanPaolo di Torino, acquisirono gli sportelli in eccesso che dovevano essere dismessi per ottenere una rapida espansione territoriale.
Il prezzo medio di cessione delle filiali era di circa 10,5mln di euro cadauna, l’acquisto degli sportelli di BAV, quindi, a un prezzo di circa 8,3mln di Euro l’uno, sulla carta, sarebbe stato sicuramente vantaggioso se non fosse che, oltre agli sportelli, si andava a assorbire una banca intera: questo fu l’errore più spaventoso, non considerare, cioè, che, oltre alla rete territoriale, si andava a incorporare anche la raccolta e gli impieghi, compresi anche quelli che oggi rientrano nella categoria delle Non Performing Exposures, cioè crediti scaduti, incagli e sofferenze, che mai furono valutati prima dell’operazione.
Per finanziare questa acquisizione fu impiegata praticamente tutta la liquidità dell’istituto senese, la logica vorrebbe che la passività, generata dall’acquisto, fosse indicata in bilancio e finanziata tramite un’emissione obbligazionaria di lungo periodo per permettere, poi, di strutturare un periodo di ammortamento congruo.
Una cosa simile, però, avrebbe comportato, credibilmente, l’azzeramento per un certo periodo dei dividendi affinché il break-even fosse raggiunto nel minor tempo possibile: cosa non possibile per la struttura stessa della composizione societaria e della governance della banca, troppo legata al territorio e alla politica per permettersi di gestire una situazione simile.
Sono noti, oggi, i nomi di due operazioni finanziarie, Alexandria e Santorini, il cui nome ellenico suona ironicamente avrebbe potuto preconizzare immagini funeste visto che di lì a poco la Grecia sarebbe entrata in una crisi sistemica estremamente pesante da cui non è ancora uscita completamente e che furono il mezzo con cui MPS coprì il “buco” nei bilanci, dovuto all’operazione AntonVeneta, e creò degli utili negli anni seguenti.
Brevemente vediamo cosa fossero queste due operazioni:
- Alexandria fu progettata insieme alla banca d’affari Nomura e si strutturò su due contratti, il primo che cartolarizzava delle attività sub prime di MPS in un insieme di titoli strutturati in cambio di BTp, finanziando il tutto mediante un Pronti Contro Termine con quegli stessi BTp come sottostante, e il secondo, un IRS (Interest Rate Swap) che avrebbe permesso di ridurre il rischio di tasso sull’operazione precedente;
- Santorini, invece, fu approntata con Deutsche Bank e si strutturò come un’operazione di Pronti Contro Termine con cui MPS cedette alla banca tedesca dei titoli di stato italiani (precisamente dei BTp a trent’anni con cui la Banca aveva riempito i portafogli nei mesi precedenti) per ottenere in cambio liquidità.
È evidente che Alexandria e Santorini andassero ben oltre la buona e prudente gestione che la Legge stessa imporrebbe agli istituti di credito; il comportamento della banca, quindi, è stato più simile in questa situazione a quello di un Hedge Fund, di un fondo d’investimento speculativo, che a quello di una banca commerciale ma, contrariamente a quest’ultimo, le operazioni ad alto rischio non sono state equilibrate da un uso corretto della finanza derivata per creare degli strumenti di copertura del rischio che possano minimizzare le eventuali perdite future.
Tutto questo ha generato la situazione che è stata raccontata in questi ultimi sette anni dai media e che ha portato, dopo varie peripezie e la nazionalizzazione sotto il Governo Gentiloni nel 2017, alla strutturazione del piano odierno per riportare la banca, sana, sul mercato accennato in incipit.
Ne riparleremo.