Mentre il mondo osserva lo scontro tra i candidati alla Casa Bianca, quasi come se si stesse eleggendo il proprio capo di stato, i mercati si muovono.
Il nesso tra politica ed economia è strettissimo, infatti, venuta meno l’idea dirigista d’oltre cortina è evidente che i due mondi si muovano contemporaneamente poiché la politica crea l’humus nel quale l’economia può prosperare e l’economia crea il consenso e i mezzi che servono alla politica per reggersi.
In questo contesto un settore economico molto interessante da valutare è quello finanziario.
Nel sentore comune si tratta di un qualcosa di oscuro, di speculativo e capace di creare bolle e crisi a ripetizione, persino di distruggere intere ricchezze, come da certi titoli che spesso si leggono come “Bruciati X miliardi”, ma, invece, la realtà è ben diversa.
La finanza non crea nulla e, di conseguenza, nulla distrugge ma rialloca, nel senso che si tratta di un gioco a somma zero; in pratica il settore finanziario è una grande “camera di compensazione” che permette di allocare in maniera più o meno efficiente la liquidità esistente da dove c’è offerta a dove ci sia domanda.
La ricerca dell’efficienza, quindi, spinge gli operatori a “prezzare” i rischi esistenti e, di conseguenza, a cercare di anticipare gli eventi per non trovarsi impreparati sia a improvvise crescite economiche sia a criticità che possano, in prospettiva, creare delle difficoltà nella gestione dei capitali.
Quello che “innervosisce” i mercati finanziari non è un evento o un altro, in quanto i rischi vengono già “prezzati” e coperti con l’uso dei contratti derivati, ma l’incertezza che impedisce il formarsi di aspettative razionali sul futuro: una volta che il livello di incertezza diminuisse ecco che il trend secolare di crescita potrebbe riprendere.
Su Wall Street questo viene misurato dall’indice VIX che misura il grado di volatilità delle opzioni, sia call sia put, sullo S&P 500, la crescita di questo indice significa che sta montando un rischio di mercato dovuto all’incertezza (di qui l’appellativo di “indice della paura”) mentre il suo calo indicherebbe che la situazione si stia normalizzando.
Nel caso delle elezioni americane questo indice ha raggiunto il suo massimo il 28 ottobre, per, poi, iniziare lentamente a calare e crollare dopo il 3 di novembre, cosa che indica semplicemente che per il mercato americano la vittoria di uno sfidante o dell’altro sia quasi indifferente.
Diversa la questione estera e, in particolar modo verso la Cina che, come ricordiamo tutti, è stata uno dei principali bersagli della politica protezionista dell’amministrazione Trump e, per questo, quando il trend della valuta cinese ha iniziato una decisa discesa nel momento in cui il preannunciato trionfo dello sfidante Biden non sembrava più così certo e le previsioni di vittoria per il POTUS uscente cominciavano a risalire.
Questo, ovviamente, non indica che gli operatori si aspettino una vittoria di Trump ma che la diano per probabile e che questo aumenti l’incertezza sugli investimenti valutari in Cina.
Bisogna ricordare che, al di là della crescita continua dichiarata del PIL del Dragone, in oriente esistano delle criticità non indifferenti dovute alla commistione tra politica ed economia, dall’uso strumentale della valuta da parte della Banca Centrale cinese per spingere l’economia e dell’esistenza di un altissimo tasso di shadow banking che va a drogare il sistema cinese ma che, oggi, mostrano dei rischi tollerabili rispetto alla convenienza degli investimenti in loco per gli operatori esteri; un’eventuale vittoria di Trump e un acuirsi delle politiche antidumping verso la Cina, ovviamente, potrebbe mutare non poco lo scenario e, così, come già si diceva in precedenza, i mercati vanno a “prezzare” il rischio spostando le attività su valute considerate più sicure provocando un ribasso della moneta locale.
Già il 5 novembre il rialzo netto della Borsa di Shangai, pari ad un 1,3%, indica che il rischio di una vittoria “a sorpresa” di Donald Trump sia già stato pesato e i capitali investiti messi in sicurezza.
In definitiva, oggi, benché l’incertezza politica relativa alle combattute elezioni statunitensi sia ai livelli massimi, anche perché credibilmente nessun candidato, se sconfitto in prima istanza, cederà le armi molto facilmente, per i mercati la situazione, oggi è più tranquilla, con gli eventuali rischi pesati e “hedgiati”, confidenti che chiunque vinca non porterà grossi sconquassi a livello economico, esattamente come fu con la vittoria di Clinton dopo i tre mandati consecutivi dei repubblicani, con Reagan e Bush sr, che non modificò nulla delle politiche di rilancio messe in campo dal primo e, anzi, continuò sulla via della deregulation e del contenimento del prelievo fiscale pur iniziando un percorso di riforme sanitarie che avrebbero dovuto portare a un sistema sanitario nazionale, tutt’oggi lungi a venire, ma questo è un altro discorso.