Chi ha seguito l’evento in diretta è perfettamente consapevole delle proporzioni del vero e proprio esodo che ha visto decine di migliaia di supporter di Trump raggiungere Washington da ogni parte d’America per manifestare il proprio sostegno alla battaglia legale in atto – checché ne dicano i media mainstream – sul voto del 3 novembre.
Coerentemente con quanto fatto dal 16 giugno del 2015, giorno in cui Trump annunciò la propria candidatura alle primarie repubblicane, la rappresentazione di qualsivoglia fatto che lo riguardi viene alterata dalla manifesta parzialità con cui molti analisti politicamente corretti lo raccontano o, a seconda della convenienza, lo censurano.
Atteggiamento, questo, che qualche giorno fa è stato magistralmente affrontato da Maurizio Tortorella che ha giustamente scritto di una «stampa ormai cinesizzata», brutalmente incattivita con il 45° presidente americano poiché egli incarna l’antitesi al pensiero unico perfettamente rappresentata dalla vuota retorica obamiana, l’errore di sistema che nel 2016 ridicolizzò il mainstream battendo Hillary Clinton praticamente da solo, contro ogni pronostico.
Così, nelle ultime ore, i pochi che hanno scritto della manifestazione di Washington lo hanno fatto mettendo in primo piano alcuni tafferugli (esplicativo, in termini di comunicazione, l’utilizzo del sostantivo “arrestati” per i sostenitori di Trump da quegli stessi media che qualche giorno fa titolarono che Carola Rackete era stata “fermata”), dando molta più importanza al colore dei capelli esibito da Trump nella sua ultima conferenza stampa, ovviamente interpretato come un segno di ammissione della sconfitta.
— Dan Scavino🇺🇸🦅 (@DanScavino) November 14, 2020
Comunque vada, il trumpismo non si esaurirà con Trump
Un atteggiamento miope, perché incapace di andare oltre l’icona che ha avuto la capacità di dare voce a un intero popolo («Sono la vostra voce» fu la frase con cui, giustappunto, Trump concluse il suo intervento alla Convention Repubblicana del 2016) divenendo il megafono di sofferenze sociali trasversalmente ignorate dal cosiddetto establishment partitico plasmandole, al contempo, attorno a una visione politica concreta sia in termini propositivi (patriottismo, America First e reaganomics) che di contrapposizione netta nei riguardi dell’approccio di stampo globalista.
Il tutto condito da un ingrediente a cui eravamo ormai tristemente disabituati, ovvero il passaggio dalle parole ai fatti: per ogni tema sul quale si era impegnato con gli elettori, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha sostanzialmente mantenuto le promesse.
Infatti, indipendentemente da quale sarà l’esito finale di queste elezioni, i 73 milioni di voti ricevuti a fronte di quella che per mesi i soliti (sempre loro) media “più autorevoli” si sono affannati a pronosticare come una sconfitta con un distacco a doppia cifra, certificano essenzialmente due cose: la prima è che il movimento che ha sfilato ieri per le strade di Washington per molti aspetti ricorda l’indole movimentista del Tea Party ed è un fenomeno politico destinato a durare per anni, mentre la seconda è che sarebbe sempre bene non sottovalutare mai un certo Donald J. Trump.