Pochi, in queste ore, ricordano che gli Stati Uniti d’America sono nati dalla ribellione alla monarchia britannica, che i coloni combatterono contrapponendovi un modello costruito su libertà, diritti e sovranità popolare.
Tant’è che la Costituzione federale del 1787 si apre con tre parole che non lasciano alcuno spazio a interpretazioni: We, the People (Noi, il popolo).
Questo non certo per giustificare l’ingiustificabile, ma perché sarebbe fuorviante commentare quanto accaduto nella capitale statunitense senza tenere conto del Dna del suo popolo e delle sue istituzioni, così come è del tutto parziale affermare che una forma di protesta così estrema sia unicamente il frutto delle contestazioni di Trump sulla legittimità del risultato delle elezioni.
Le radici sono molto più profonde, e provengono dal terreno di una polarizzazione che, come vediamo dalla ricerca che il Pew Research Center condusse nell’ottobre del 2017, dal 1994 denota una crescita costante della divisione tra democratici e repubblicani.
Motivo per cui è fondamentale mettere in fila alcuni fatti in primo luogo per capire quale sia l’effettivo stato di salute della democrazia americana e, contestualmente, per comprendere un fenomeno, il trumpismo, che oramai trascende lo stesso Trump e il partito repubblicano assurgendo a movimento, peraltro con diversi punti in comune con i Tea Party.
L’odio reciproco
Nel luglio del 2016 partecipai alla Convention di Cleveland per documentare come Trump fosse riuscito nell’opera di trumpizzazione del partito repubblicano, di fatto esautorandone gran parte dei vertici, che non a caso lo vedevano come il fumo negli occhi.
Fatto sta che nella corsa alla Casa Bianca il tycoon newyorkese non sconfisse soltanto Hillary Clinton, ma anche tutti gli altri candidati repubblicani.
Questo fu possibile perché, soprattutto grazie all’aiuto di Steve Bannon, Trump costruì la sua proposta politica intercettando una serie di questioni che affliggono trasversalmente la classe media dando così linfa, comizio dopo comizio, a un popolo che prima della sua candidatura era palesemente demotivato e privo di rappresentanza.
Già durante quella campagna elettorale l’odio riempiva l’aria di dibattiti e manifestazioni, e non era certamente un’esclusiva di Donald Trump.
Da una parte c’era “Crooked Hillary” (Hillary la corrotta) e dall’altra “Basket of deplorables” (manipolo di deplorabili), che era il modo in cui la candidata democratica definì i supporter avversari, arrivando perfino a paragonarli ai terroristi dell’ISIS.
In un angolo del ring c’era l’Emailgate e nell’altro il Russiagate, e ancora le Podesta email, le reciproche accuse sul sessismo e chi più ne ha più ne metta.
Questo era il clima già nel 2016, che si è poi trascinato lungo tutto il mandato dell’amministrazione Trump, culminando con il processo per l’impeachment che si concluse il 5 febbraio scorso con l’assoluzione del presidente da parte del Senato.
L’escalation di violenza
Come non ricordare gli incidenti di Charlottesville nell’agosto del 2017, quando 3 persone persero la vita: un manifestante investito da un’auto guidata da un estremista appartenente ai suprematisti bianchi e due agenti a bordo di un elicottero che si schiantò a terra. In quella circostanza le opposte fazioni si scontrarono sulla decisione del sindaco di rimuovere la statua del generale Robert E Lee.
Da lì a oggi è stato un crescendo che è montato sull’intrecciarsi di questioni oggettivamente divisive.
Pensiamo alla cancel culture, cioè l’approccio censorio per mezzo del quale qualcuno intenderebbe arrogarsi il diritto di riscrivere unilateralmente la storia (ma non soltanto) “depurandola” dalle parti ritenute ingiuste.
Poi l’irrisolta questione del razzismo, riemersa dopo la barbara uccisione di George Floyd, a cui alle proteste civili si sono sommati incidenti nel corso dei quali gli estremisti di sinistra hanno letteralmente messo a ferro e fuoco i quartieri di numerose città in tutto il paese, in molti casi sfruttando la situazione per devastare luoghi di culto e saccheggiare negozi e centri commerciali.
Eventi compressi in un lasso di tempo limitatissimo, nel quale l’ultimo anno è stato caratterizzato anche e soprattutto dalla pandemia e dagli effetti collaterali che ne sono scaturiti, a livello sociale ed economico.
Le colpe di Trump
In un contesto simile i messaggi dovrebbero essere chiari e inequivocabili: non si può dirsi a favore del Law & Order quando gli incidenti sono causati da BLM e dagli Antifa e rimanere nel vago quando i propri militanti mettono a ferro e fuoco il tempio della democrazia del paese di cui si è presidente.
Se contestare i risultati delle elezioni è del tutto legittimo e l’obiettivo dichiarato di tale battaglia è «la difesa della democrazia americana» non sono ammissibili zone d’ombra: talvolta difendere la democrazia significa anche scegliere il male minore, e in questo caso una sconfitta elettorale – per quanto dubbia – è senz’altro un male minore rispetto alla messa in discussione dell’intero sistema su cui quella stessa democrazia è incardinata.
Tanto più avendo davanti la prospettiva politica di un mandato in cui fare opposizione senza sconti a un presidente, Biden, oggettivamente debole e giocarsi la possibilità concreta di rimettere le cose a posto attraverso il processo democratico.
Questa sarebbe stata la risposta che mi sarei aspettato da un presidente che ha a cuore il destino della sua nazione.
Watch @robertmooreitv‘s report from inside the Capitol building as the extraordinary events unfolded in Washington DChttps://t.co/krCQf1uQbx pic.twitter.com/SiWbzF5Nzs
— ITV News (@itvnews) January 6, 2021
Come dicevo all’inizio, trovo fuorviante affermare che le responsabilità di quanto avvenuto siano solamente di Trump e sarebbe miope ritenere che questa spaccatura sociale e politica possa essere sanata con una sua (a mio avviso improbabile) uscita di scena.
L’atteggiamento censorio con il quale gran parte dei media mainstream e degli esponenti politici dell’area dem trattano chiunque non si allinei al pensiero unico da loro imposto scava, ogni giorno, un solco sempre più profondo che li divide da quella metà di America che, piaccia o meno, esiste sostanzialmente contrapponendo il principio di sovranità all’approccio globalista e la difesa dell’identità al politicamente corretto.
Un’ultima considerazione
Le immagini del Campidoglio preso d’assalto sono già un’icona della storia contemporanea e sortiscono un impatto devastante poiché, per molti aspetti, rappresentano la realizzazione di scene che abbiamo già visto in televisione oppure letto tra le pagine di qualche romanzo.
Con la differenza che stavolta è tutto vero e che sta accadendo in quella che fino al 3 novembre scorso era universalmente riconosciuta come la più grande democrazia al mondo.
Medesima considerazione che tutti facemmo davanti ai video degli attentati dell’11 settembre 2001: dopo quel giorno l’America si rialzò dando dimostrazione di avere gli anticorpi necessari per risollevarsi e ripartire.
Da italiano e occidentale mi auguro che dopo i 4 morti di ieri gli Stati Uniti sappiano rialzarsi un’altra volta, magari partendo da un concetto basilare ma non scontato come il reciproco riconoscimento delle ragioni altrui.