Molti affermano che la chiusura dei suoi account sulle principali piattaforme equivarrà ad una sostanziale eliminazione di Trump dalla scena, ma siamo davvero sicuri che sia così? Ho buone ragioni per credere di no, ma aggiungo che la vera domanda è un’altra: ora quali scenari si aprono?
Controllo totale
Anzitutto il contesto. L’avvento degli smartphone (proprio ieri ricorreva il 12° anniversario della presentazione dell’iPhone) ci ha connessi perennemente tutti, rivoluzionando ogni aspetto del nostro stile di vita, tra cui il mondo dell’informazione.
Più siamo connessi e maggiori sono i guadagni delle piattaforme, poiché la merce che vendono è la nostra attenzione. Il bello (per loro) è che più tempo trascorriamo online e più ci conoscono: catalogando ogni singola azione che compiamo in Rete imparano i nostri gusti, le nostre opinioni e conoscono i nostri segreti. Tecnicamente si chiama profilazione.
Dati che gli algoritmi delle piattaforme utilizzano per consigliarci ciò che ritengono più affine ai nostri gusti: prodotti, servizi, mete turistiche, ma anche notizie.
Qui casca l’asino, perché come vediamo dai dati elaborati da Agcom gli introiti pubblicitari dei mezzi di informazione provengono per l’80% dalle suddette piattaforme che, di fatto, li controllano: «Se è vero che il programmatic advertising comporta dei vantaggi, sia per inserzionisti sia per gli editori, dall’altra parte, il crescente ricorso a tale modello di vendita aumenta la dipendenza del sistema pubblicitario (e dei suoi attori) dagli intermediari tecnologici (ad network, network di affiliazione, motori di ricerca, social network).»
Un altro dato Agcom molto interessante è quello che riguarda l’accesso all’informazione, che nella maggior parte dei casi avviene tramite le piattaforme che, come spiegato prima, decidono arbitrariamente quali notizie sottoporci.
Ricapitolando: le piattaforme controllano noi, decidono quali contenuti farci vedere e sono – di fatto – azioniste di maggioranza degli organi d’informazione ma nonostante questo, pur basando il loro business su contenuti (altrui), non intendono assumersi la responsabilità di ciò che viene pubblicato su di esse.
È l’orizzontalità, bellezza
Prima dell’avvento del Web comunicazione e informazione erano basate sul principio di verticalità – che era sostanziato dall’autorevolezza e dall’importanza della fonte – mentre oggi è stato sostituito dall’approccio orizzontale grazie al quale, in estrema sintesi, tutti possono comunicare e informare.
Per essere chiari, l’orizzontalità è il principio grazie al quale i colossi del Web hanno potuto monopolizzare i mercati di comunicazione e informazione e che, giocoforza, ha prodotto un modello di società differente, nel quale, ad esempio, nel 2016 un outsider come Donald Trump ha potuto vincere le elezioni presidenziali pur avendo contro il 95% dei media, come egli stesso ha raccontato in questa intervista del 2017.
Ma non soltanto, perché la società orizzontale ha anche mutato la nostra forma mentis, abituandoci a esprimere opinioni in merito a qualsiasi argomento e ad avere tutto a portata di click.
Insomma, i nostri contenuti e le nostre opinioni sono la linfa di cui si nutre questo stesso sistema che oggi si erge a censore, arrogandosi il diritto di decidere quali opinioni hanno diritto di cittadinanza e quali no, senza però volersi assumere la responsabilità dei contenuti grazie a quali guadagna, come fa qualsivoglia editore. Comodo, no?
Oltre all’informazione, ora i social fanno anche politica
Chi oggi esulta per la censura che le piattaforme stanno attuando nei confronti di Trump e di gran parte del suo ecosistema (ieri YouTube ha cancellato War Room, il canale di Steve Bannon) dovrebbe smettere per un attimo di guardare il dito (Trump) e spostare lo sguardo sulla Luna (Zuckerberg & Co.), poiché bloccando i canali del presidente degli Stati Uniti in carica, hanno compiuto oggettivamente un salto di qualità.
In questo senso la tempistica non è affatto casuale: lo hanno fatto ora che mancano una manciata di giorni a fine mandato eppure, stando alle motivazioni addotte, di occasioni (o pretesti che dir si voglia) ne avrebbero avute anche prima.
Evidentemente era più opportuno mantenere buoni uffici alla Casa Bianca per scongiurare la riforma della Sezione 230 del Communications Decency Act, secondo cui «nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi».
Se è vero che durante l’assalto a Capitol Hill Trump non ha condannato la violenza come avrebbe dovuto, è altresì vero che nel momento in cui decidono di chiudere i suoi account, le piattaforme Web compiono un passo che le porta a un punto di non ritorno: decidere chi ha diritto di parola e chi no.
Ora, delle due l’una: o sono politici oppure editori. Lo dicano apertamente, e i governi agiscano di conseguenza.
Un potere smisurato
Che gli algoritmi orientino molte delle decisioni che prendiamo è un fatto, così come è oggettivo il potere immenso di cui dispongono i proprietari delle Big Tech Companies, che possono determinare come meglio credono il risultato di un’elezione. D’altra parte lo abbiamo visto anche il 3 novembre: frode o meno, molti Stati si sono giocati sul filo di poche migliaia di voti.
Considerate che per tutta la campagna elettorale gran parte dei post di Trump sono stati marchiati da Facebook e Twitter, che invitavano gli utenti a informarsi tramite le fonti “ufficiali”. Già, ma chi lo decide quali sono queste fonti? Con quale criterio? In questo senso trovo che questo meme (assolutamente geniale) dica molto più di tante parole:
Normale che alla mente tornino episodi come il video in cui una dirigente di Google, Jen Gennai, nel giugno 2019 affermava che «nel 2016 siamo stati tutti fottuti: noi, la gente, i giornali. Tutti fregati» e che, quindi, «stiamo lavorando sui nostri algoritmi per evitare che Trump possa essere confermato».
Così come dovrebbe essere la normalità, per governi e mezzi di informazione, sforzarsi di guardare la questione al di là di Trump e riflettere seriamente sul fatto che Zuckerberg, Dorsey, Google e gli altri big del Web potrebbero bloccare chiunque altro, in qualsiasi momento e senza essere tenuti a dare spiegazioni.
Non voglio spingermi a paragonare la vicenda del presidente USA con la censura che il regime comunista cinese sta infliggendo a Jack Ma per alcune dichiarazioni andate di traverso a Xi, ma il blocco unilaterale di un leader e dei suoi seguaci per via delle loro opinioni ha molti punti in comune con l’atteggiamento di Pechino.
E se domani, per qualsiasi motivo, a Twitter e Facebook non dovessero star bene i post di un leader di sinistra? Magari nel pieno di una competizione elettorale?
Tutti dovrebbero convenire quantomeno sul principio che non esiste libertà a targhe alterne.
La questione Trump
Infine, la risposta alla prima domanda. Per come la vedo, nonostante quanto accaduto il 6 gennaio, la decisione di bannare Trump potrebbe rivelarsi un boomerang poiché, piaccia o meno, il tycoon newyorkese continua a essere la persona con più visibilità sulla faccia della terra.
Ergo, se c’è qualcuno che può riuscire a dare peso specifico a un sistema alternativo questo è proprio lui, che infatti sta valutando il da farsi per creare un network crossmediale composto, cioè, da diversi tipi di canali (Web, radio e tv).
Che ci riesca oppure no sarà tutto da vedere, ma al di là della politica si tratta di una questione che interessa parecchio anche a molti brand e personaggi pubblici di altro tipo, che giustamente si stanno attrezzando per portare le loro fan base su piattaforme di cui sono direttamente proprietari.