Lo Stato italiano è Blockbuster che cerca di competere con Netflix: metafora che rende bene l’idea su quella che sarà la vera sfida di Mario Draghi.
L’Italia è rimasta analogica nella mentalità prim’ancora che in termini di trasformazione digitale pura, e per questo è costretta a fare quel che può nonostante le zavorre che ne tengono inchiodata la parte produttiva mentre il resto del mondo corre sempre più veloce.
Certo, le sfide contingenti come il piano vaccinale sono prioritarie, ma tutto il resto è legato a doppio filo all’opera di trasformazione dello Stato che per funzionare deve essere attuata per intero, pena il fallimento.
Sovranità digitale
È, di fatto, uno dei più grandi temi del nostro tempo, come peraltro esplicitato dal paper realizzato dal Parlamento Europeo dal titolo “Digital sovereignty for Europe”:
«L’UE è sempre più vista come uno standard di riferimento in materia di privacy e protezione dei dati e ha già intrapreso un importante sforzo legislativo nel campo della sicurezza informatica e della sicurezza della rete 5G. Inoltre, la garanzia di trasparenza e fiducia è diventata il segno distintivo dell’approccio dell’UE alle questioni digitali. In questo contesto, sono state avanzate proposte per promuovere ulteriori iniziative a livello dell’UE per accelerare il processo di digitalizzazione e, in particolare, per costruire un quadro di dati, creare un ambiente digitale affidabile e adattare le regole di concorrenza e regolamentazione.
La promozione degli investimenti nell’IA etica e nelle tecnologie di frontiera, o stimolo di partenariati pubblico-privato e la creazione di un quadro di cooperazione per la ricerca dell’UE su larga scala nel campo delle nuove tecnologie sono destinate ad aumentare la capacità di innovazione dell’UE. La creazione di un quadro di dati paneuropeo sicuro e l’adozione di nuovi standard e pratiche per fornire prodotti e servizi digitali affidabili e controllabili garantirebbero un ambiente digitale più sicuro, in linea con i valori e i principi dell’UE.
Inoltre, nel quadro della concorrenza e della regolamentazione, uno spostamento verso meccanismi più difensivi e prudenziali, comprese nuove regole per affrontare la proprietà statale straniera e le pratiche distorsive delle grandi società tecnologiche, sembrerebbe auspicabile per ottenere una maggiore autonomia tecnologica.»
Sostanzialmente, le strade che dobbiamo percorrere sono diverse, a partire dall’alfabetizzazione digitale che, come ha spiegato Milena Gabanelli sul Corriere della Sera, ci vede tra i fanalini di coda, basti pensare che, secondo l’OCSE:
- Solo il 21% della popolazione ha un livello di alfabetizzazione digitale sufficiente;
- Il 31% non utilizza internet;
- Il 13% degli italiani utilizza l’online per le procedure amministrative (media UE: 30%);
- In Italia l’8% delle PMI vende anche online, in Germania il 23%;
- Il 40% dei dipendenti di imprese private italiane non sa utilizzare bene i software da ufficio (Office, CSM, CRM).
Numeri che lasciano ben poco spazio alle interpretazioni evidenziando inequivocabilmente la necessità di agire con la determinazione che è propria di una personalità dello spessore di Mario Draghi, perché se non ci adeguiamo il solco tra noi e gli altri paesi è destinato a farsi sempre più profondo, alimentando ancora di più gli appetiti di chi non vede l’ora di colonizzarci (vedi alla voce Cina).
Chiaro che per riuscirci ci vorrà ben altro che un ministero senza portafoglio, anche perché quella dell’innovazione è una materia che dovrebbe prevedere un budget ad hoc in tutti i ministeri più importanti, dall’economia, all’ambiente alla pubblica amministrazione, ma anche facendo in modo che vengano ben spesi al fine di evitare veri e propri scandali come il sito dell’INPS, costato la bellezza di 776 milioni di euro e per giunta malfunzionante.
Parallelamente, la grande questione relativa alla proprietà della nostra identità digitale e del rapporto con i grandi player del Web che, come spiego in questo articolo, attualmente detengono un monopolio su comunicazione e informazione: un potere smisurato, in grado di influenzare le decisioni di ogni singolo cittadino e financo gli equilibri politici di interi paesi.
Riforme istituzionali
Al netto dell’indubbio spessore di Mario Draghi, la nascita del suo governo è uno degli innumerevoli sintomi della malattia che affligge la nostra democrazia: il sistema partitocratico.
Quello dell’ex presidente della Bce sarà il 67° governo in 75 anni, il che significa che ogni esecutivo ha governato mediamente per poco più di 400 giorni che, al netto di vacanze e crisi di maggioranza, sono una vera miseria.
Impossibile immaginare una qualsivoglia azienda cambiare CEO e consiglio d’amministrazione con tale frequenza, per il semplice fatto che nessuno di loro avrebbe il tempo materiale per poter attuare una visione collocata quantomeno nel medio periodo.
Parliamoci chiaro: l’instabilità politica è la causa principale del nostro scarso peso nei consessi che contano, della mancanza di fiducia degli operatori economici e dell’assenza di appeal per gli investitori stranieri nonostante siamo oggettivamente il paese più bello al mondo.
L’impossibilità per il popolo di eleggere maggioranze con i numeri per governare ha dato vita a una classe politica priva di visione, che non agisce in funzione di ciò che è giusto ma della conservazione dello status quo, dando vita a governi composti da forze eterogenee che ci condannano a sperare nel meno peggio propinandoci accordi al ribasso che non sono mai vere cure ai nostri mali, semmai inutili (e costosi) palliativi.
Ergo, sarebbe cosa buona e giusta se Mario Draghi scongiurasse il pericolo di una legge elettorale proporzionale e imponesse ai partiti l’adozione di un sistema come quello attualmente in vigore per eleggere i sindaci.
Insomma, è necessario dotarci di un sistema politico in grado di correre alla stessa velocità della società, perché da esso deriva la possibilità di compiere scelte e adottare provvedimenti e riforme che aspettiamo da decenni in mancanza delle quali i nostri figli, una volta cresciuti, si vedranno costretti a tornare in Italia solo per trascorrerci le vacanze.