Quelli che ci hanno fatto un mazzo così con la storia che Trump fosse una marionetta nelle mani di Putin dovrebbero avere la decenza di andare a nascondersi. Tutti, dai politici ai pennivendoli radical chic che hanno letteralmente stuprato la professione del giornalismo mettendo nero su bianco una rappresentazione della realtà al contrario.
Basti pensare al Russiagate: per due anni l’opinione pubblica è stata inquinata da fiumi di parole, richieste di impeachment e perfino un premio Pulitzer a New York Times e Washington Post per un un’inchiesta che si è chiusa con un «no collusion», cioè che si trattava di una balla colossale.
Ebbene, se con Trump il metodo era quello di enfatizzare anche le virgole pur di dipingerlo come il male assoluto, con Biden viene adottato il criterio opposto, cioè minimizzare ogni suo insuccesso con l’obiettivo di farlo apparire come un buon presidente; in tal senso, l’ostacolo che si trova dinnanzi l’apparato mediatico radical chic è essenzialmente uno: l’evidenza dei fatti.
Da una parte abbiamo un Trump che ha certamente mille difetti, ma che durante la sua presidenza ha ottenuto risultati concreti oggi incontestabili – basti pensare a economia, tempi di realizzazione del vaccino, Cina e le zero guerre – mentre dall’altra c’è un Biden che ogni giorno arricchisce la sua collezione di disastri: gestione della pandemia, energia, Israele e Afghanistan, giusto per elencarne alcuni, tra cui non ho volutamente menzionato l’attacco sferrato da Putin all’Ucraina, poiché l’attuale inquilino della Casa Bianca lo considera un successo.
Wag the dog
Letteralmente significa «agita il cane», ed è un’espressione che viene utilizzata in politica per definire qualcuno che si serve di un espediente per distogliere l’attenzione da una situazione scomoda: non a caso è anche il titolo di un film del 1997 (la versione italiana si intitola “Sesso e potere”, ndr) il cui protagonista è Robert De Niro, che interpreta uno spin doctor che inventa di sana pianta una fantomatica guerra in Albania per oscurare mediaticamente lo scandalo sessuale che aveva travolto il presidente a poche settimane dalle elezioni.
Esattamente la medesima tattica messa in atto da Biden sin dall’inizio di questa vicenda cogliendo, dal suo punto di vista, tre piccioni con una fava: uscire dall’angolo in patria, dove sta battendo i record negativi di tutti i tempi in termini di consenso a un presidente, fornire un assist a Putin per prendersi ciò che vuole a scapito dell’Europa e, dulcis in fundo, disinnescare i pericoli derivanti dagli opachi affari di suo figlio Hunter, che egli da vicepresidente favorì per un incarico da 83 mila dollari al mese presso Burisma, una società energetica ucraina considerata corrotta dagli USA. Tra le altre cose Biden convinse l’allora presidente Poroshenko a licenziare il procuratore che indagava su suo figlio in cambio di un prestito di Stato. Quisquilie, insomma.
Anche questa circostanza dimostra il doppiopesismo dei media: richiesta di impeachment (ovviamente andata in fumo) a carico di Trump per una telefonata durante la quale chiese a Zelensky ulteriori prove del coinvolgimento dei Biden, e silenzio assordante sul palese conflitto d’interessi dell’allora vice di Obama.
Così, mentre l’Occidente è impegnato a fare il solletico a Putin minacciandolo con “pacchetti di sanzioni”, l’asse Mosca-Pechino gongola per l’ormai palese intoccabilità conquistata: l’Europa dipende dalla Russia per l’energia e dalla Cina per la manodopera e per molte materie prime, mentre gli Stati Uniti sono appesi al cappio della debolezza del proprio presidente e degli interessi di poche multinazionali che concentrano un potere economico e mediatico pressoché smisurato.
Un contesto drammatico, nel quale gli hashtag di solidarietà sui social e i monumenti illuminati di giallo e blu spiccano come le azioni più concrete a sostegno dell’Ucraina.