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POLITICA USA

«I can’t breathe». Non riesco a respirare

George Floyd è morto così, mentre un cellulare riprendeva il fatto, con la testa bloccata a terra e il collo pressato dal ginocchio di un poliziotto. È morto mentre il sangue gli usciva incontrollato dal naso, mentre l’ingiustificata rabbia si trasformava in accanimento gratuito. E fa ancora più male quando dal video completo di una telecamera di servizio si nota che George non aveva, anche se accusato di essere sotto effetto di sostanze stupefacenti, opposto resistenza all’arresto.

È morto per l’ennesimo uso della forza illegittimo da parte di chi dovrebbe sapere la differenza fra quando utilizzarla e quando no. È morto in una fredda strada di Minneapolis, mentre ripeteva di non riuscire a respirare, mentre chiamava la madre e alzava gli occhi al cielo sperando che il Dio del poliziotto gli dicesse di smettere. Perché, per quanto se ne possa dire, uccidere significa violare la natura. È morto fra le grida dei passanti, nell’ennesima testimonianza di come il colore della pelle sia ancora oggi utilizzato come pretesto per uccidere una persona.

George Floyd è morto così: nell’ennesima dimostrazione di come gli Stati Uniti D’America siano il Paese con il maggior numero di controsensi nella storia. Nell’ennesima dimostrazione di come possano essere i leader in tanti campi, ma non lo sono in ciò che conta davvero. Perché essere i primi in ambito economico non dice se si è orgogliosi di essere americani.

Non è solo il colore della pelle di George a dover farci pensare, è il gesto in sé a dover imporre una riflessione. Eppure non è stato un bianco ad essere stato ucciso brutalmente. È un viaggio che inizia dalla schiavitù di metà Ottocento e passa per gli anni Sessanta, finendo ad oggi. È una storia millenaria, una storia lastricata di sangue che non sembra trovare una battuta d’arresto. È una storia che passa dall’idea che esista una razza, quella bianca, che è superiore alle altre.

Nonostante i progressi a livello legislativo e nel riconoscimento dei diritti, questa supremazia, per chi crede che esista un Dio che approva le disuguaglianze, non è mai passata.

È cosa nota, ad esempio, che J Edgar Hoover – una vita a capo dell’FBI – abbia utilizzato tattiche e procedure costituzionalmente inammissibili e illegali anche contro persone che, per la libertà, sono morte. Basti pensare al nastro inviato a Martin Luther King quando fu insignito con il Nobel. O, anche, all’operazione COINTELPRO, utilizzata per drenare le organizzazioni come quelle del dottor King – o le Pantere Nere – e, quindi, per «screditare, smantellare, fuorviare o altrimenti neutralizzare» gruppi ritenuti sovversivi. E ancora: la tattica divide et impera, utilizzata per creare sospetti reciproci o le intercettazioni “personalissime” – ambientali e/o telefoniche – ordinate da Hoover verso tutti i sospetti e, secondo alcuni, anche verso qualche Presidente o qualche First Lady.

È cosa nota che le Leggi Jim Crow abbiano autorizzato l’applicazione del separate but equal, mentre Rosa Parks si rifiutava di cedere il posto su un bus ad un bianco in Alabama perché non aveva forza nelle gambe e voleva solo tornare a casa.

È cosa nota che il neoeletto governatore dell’Alabama George Wallace, nel suo discorso d’insediamento del 1963, abbia affermato «segregazione ora, domani e sempre» per poi, pochi mesi dopo, bloccare l’accesso all’Università a due studenti afroamericani.

Eppure anni così intensi avrebbero dovuto porre la parola fine su una diatriba che, in realtà, non sarebbe mai dovuta esistere. Già nel 1839 la rivolta sull’Amistad avrebbe dovuto porre la parola fine, anche se così non è stato. Perché la libertà non può essere oggetto di discriminazione.

Poco importa, a questo punto, che un afroamericano sia diventato Presidente. E poco importa che un compianto senatore abbia perso la presidenza proprio per aver impedito ad una sostenitrice di definirlo «arabo, musulmano e negro».

E poco importa se oggi si scopre che sui poliziotti che hanno ucciso George Floyd esistano molti episodi controversi. Poco importa perché il fatto è accaduto, le proteste – che tanto respirano di Civil Rights Act e di Voting Rights Act – siano in corso. La verità è che non avremmo dovuto avere nessun omicidio e nessuna conseguente protesta. La verità è che ancora oggi appare intollerabile riuscire a parlare di omicidi basati sulla razza, il sesso, la religione, la paura verso le forze dell’ordine oltre che, ovviamente, di omicidi in generale. Non esiste libero arbitrio nell’augurare la morte ad una persona, figuriamoci nell’ucciderla, soprattutto gratuitamente.

La storia si è ripetuta, ancora una volta.
E ci ha detto nuovamente che la libertà è, in molto casi, un diritto concesso solo a chi può permetterselo.
Non esiste disonore più grande, specialmente per chi la libertà dovrebbe difenderla e non limitarla.

La verità è che stiamo diventando spregevoli agli occhi di chi ci guarda. La verità è che nessuno si sforza, in un mondo incontrollato, di essere cristiano e non nel senso religioso del termine.
La verità è che, mi perdonerà Martin Luther King, la mia libertà non può finire dove inizia quella degli altri.

Non riesco a respirare neanche io.

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