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POLITICA USA

L’ipocrisia di “Black lives matter”

Gli amanti della pallacanestro (come il sottoscritto) non aspettavano altro. Finalmente è ripartita la stagione Nba, un appuntamento irrinunciabile per tantissimi appassionati della “palla a spicchi”.

Tuttavia, una stagione bruscamente interrotta dalla pandemia Covid-19 non poteva che riprendere…in ginocchio.

E così giovedì 30 luglio, nella “bolla” di Orlando, sotto l’ala di una Lega molto attenta alle dinamiche del marketing, soprattutto quelle di natura politica, e quindi disposta a chiudere un occhio sul regolamento NBA (che impone agli atleti di ascoltare l’inno nazionale con postura dignitosa), i giocatori degli Utah Jazz e dei New Orleans Pelicans, in segno di solidarietà, hanno deciso d’inginocchiarsi contro il razzismo e l’uso eccessivo della forza da parte della polizia.

Perciò, durante l’inno, tutti i protagonisti (giocatori, allenatori, arbitri), evidentemente avvolti da un unico sentire, si sono presentati sul parquet indossando una maglia nera con la celebre (quanto inflazionata) scritta “Black lives matter”, a sostegno del movimento antirazzista, tornato alla massima potenza dopo l’uccisione di George Floyd, a Minneapolis, il 25 maggio scorso.

Un’immagine indubbiamente toccante che in breve tempo ha fatto il giro del mondo, rilanciata anche dagli atleti delle due squadre di Los Angeles.

Eppure, e lo affermo perché ai cowboy ho sempre preferito gli indiani, se la malapianta del razzismo va combattuta con estrema fermezza, mi chiedo quanto sappiano, fuoriclasse del calibro di LeBron James o Anthony Davies, al di fuori del recinto statunitense, delle discriminazioni perpetrate da neri su altri neri.

Si tratta di vicende poco pubblicizzate, se non da pochi validi colleghi, che non si addicono alla moda del momento.

Perché, ne siamo consapevoli, va bene “Black lives matter”, ma solo se rivolto nella direzione che fa più comodo e scalpore, specie quando un afroamericano è brutalmente ucciso da un poliziotto. Tanto meglio se bianco.

Alle stelle Nba (ma l’intuizione andrebbe rivolta a tutti gli atleti delle varie leghe professionistiche americane), mi piacerebbe chiedere, per esempio, se sono a conoscenza delle violenze (e degli omicidi) che si consumano con puntualità in Sudafrica.

E non sto parlando delle disgustose pratiche cui ci aveva abituato il Paese guidato dal regime razzista condannato dalla Trc[1] per crimini contro l’umanità, ma di quello post apartheid, “multirazziale”, nato dopo la liberazione di Nelson Mandela.

Quasi un anno fa, infatti, un lancio dell’agenzia Ansa[2]allertava in merito a un’ondata di saccheggi, incendi e atti vandalici contro negozi proprietà di stranieri nelle periferie di Malvern e Jeppestown, a sud di Johannesburg e a Pretoria.

In verità, come giustamente riporta Mauro Indelicato, “quello che non si vuole ammettere è che nel Sudafrica post apartheid la violenza xenofoba è ben presente ed è perpetuata da giovani di colore contro altri cittadini di colore. Una guerra civile africana proprio nel Paese della lotta alle discriminazioni”.[3]

Violenze montate come panna che partono da lontano, alla vigilia dell’evento sportivo più importante in assoluto: l’organizzazione dei mondiali di calcio del 2010.

A fare le spese dell’ondata xenofoba sono soprattutto lavoratori somali, del Malawi, dello Zimbabwe e di altri Paesi africani.

Non possono dunque non creare turbamento le dichiarazioni del leader nero sudafricano (e marxista) con cognome accostabile a un codice fiscale, passato alle cronache per aver invitato i partecipanti a un suo comizio ad ammazzare bianchi: «Per ogni nero uccideremo cinque bianchi. Uccidi uno di noi, uccideremo cinque di voi. Uccideremo le loro donne, uccideremo i loro figli, uccideremo i loro cani, uccideremo i loro gatti, uccideremo qualsiasi cosa si metta sulla nostra strada».[4]

Probabilmente, ed è comprensibile per carità, dai loro televisori a 1.000 pollici i nostri campioni inginocchiati non trovano il tempo per seguire notizie così lontane, poco interessanti e non utilizzabili ai fini “pubblicitari” indirettamente imposti dalla vulgata del politicamente corretto.

E allora, voltiamo pagina.

Mi piacerebbe chiedere loro se sono in grado di spiegare, prima di sbucciarsi le ginocchia sul parquet, perché in Mauritania, nonostante una recente legge l’abbia abolita, la piaga della schiavitù sia così difficile da curare.

“Non ci sono statistiche affidabili – scrive Chiara Clausi – su quante persone siano schiavizzate in questo Stato dell’Africa. E la sua posizione ufficiale è negare che ci siano schiavi nel paese. Ma il l’indice World Slavery stima che la Mauritania abbia uno dei più alti tassi di schiavitù sulla terra, con oltre l’1% della popolazione impegnata in lavori forzati”.[5]

Mentre ci si ammazza per colpa della crisi economica e di consolidati tribalismi, una guerra civile a bassa intensità sta attraversando Paesi come Sudafrica, Camerun, Nigeria, Congo e Libia, morti che, palesemente, non catturano l’interesse dei milionari di cui sopra.

È forse giunto il momento di allargare la discussione a una riflessione più ampia sul razzismo (soprattutto quello che non ti aspetti) capace di affliggere ogni giorno, nell’indifferenza generale, molte realtà del continente africano.

Non c’è posto, per esempio, nei cuori dei “Black lives matter”, per gli oltraggi subiti dai lavoratori domestici (molto spesso neri) in Libano oppure Arabia Saudita, abusi che in questi Paesi rappresentano la norma.

Insomma, se a praticare la violenza, o peggio, un omicidio non è una divisa indossata da un bianco l’interesse per i maltrattamenti subiti dai neri improvvisamente scema.

Lo conferma anche Najma Fiyasko Finnbogadòttir, attivista somala e fondatrice della piattaforma social Md-Show, che denuncia il trattamento vergognoso riservato ai somali bantu nel suo Paese, discriminati per le loro caratteristiche fisiche: «Paradossale che ci si dimentichi di una questione come questa proprio mentre si scende in piazza per Floyd».[6]

Basterà, cara Najma, aspettare il prossimo omicidio commesso da un poliziotto bianco negli Stati Uniti per ridestare la noiosa ipocrisia dei nostri campioni che, vedrai, morandianamente parlando, torneranno in ginocchio. Ma non certo da te.

D’altra parte a chi interessa dei somali bantu?

 

P.S.: Un ringraziamento sentito a Jonathan Isaac, giocatore di colore degli Orlando Magic, rimasto in piedi durante l’inno senza indossare la maglia nera. Chapeau.

 

 

[1] Truth and Reconciliation Commission (Commissione per la verità e la riconciliazione).

[2] “Sudafrica: attacco contro stranieri”. Ansa.it

[3] Mauro Indelicato, “In Sudafrica i cittadini stranieri vengono cacciati e uccisi”, InsideOver

[4] Simone Pierini, “Politico sudafricano choc: «Uccideremo le donne bianche, i loro figli e i loro cani»”. Leggo.it

[5] Chiara Clausi, “Mauritania, un paese afflitto dalla piaga della schiavitù”, InsideOver

[6] “Black Lives Matter Il razzismo che non ti aspetti”. AfricaRivista.it

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