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Coronavirus

Il flop di Immuni

Non funziona. Non aiuta nessuno. Crea solo problemi. Insomma, è un mezzo flop. L’unica consolazione è che Immuni non è la sola app anti-coronavirus ad avere fallito, almeno fin qui: in Europa nessun sistema di «contact tracing» si è rivelato particolarmente efficace contro la pandemia da Covid-19. Forse la colpa è stata anche della scarsa informazione fornita sulla nostra app.

Ma di certo hanno influito altri fattori, dalla paura per la privacy ai difetti tecnici, dall’eccesso di burocrazia all’assenza di incentivi, fino (e soprattutto) alla totale carenza di un aiuto operativo offerto all’utente.

Immuni, questo lo sanno tutti, è un’applicazione che si scarica gratuitamente sugli smartphone e consente a un sistema informatico di utilizzare le informazioni su spostamenti e contatti degli utenti contro l’emergenza coronavirus. Possono scaricare Immuni i possessori maggiorenni di un cellulare. Possono farlo anche quelli tra i 14 e i 18 anni, purché autorizzati da almeno uno dei genitori.

Ogni utente che risulti positivo al Covid-19 può decidere di segnalare la sua positività all’applicazione. La decisione è sempre volontaria, non è obbligatoria. A quel punto, secondo quanto riferiscono gli operatori del numero verde 800912491, Immuni dovrebbe allertare tutti gli altri utenti che nei 15 giorni precedenti sono entrati in contatto con l’utente positivo a una distanza inferiore ai 2 metri e per un periodo superiore ai 15 minuti.

Sul loro cellulare comparirà quindi un messaggio di questo tenore: «Immuni ha rilevato che il giorno X sei entrato in contatto con un utente Covid-19 positivo. Segui le indicazioni del tuo medico. Rimani a casa per i 14 giorni successivi alla data del contatto».

Una volta informati di essere potenziali contagiati, gli utenti dovrebbero fare tre o quattro cose, in questa sequenza: dovrebbero  contattare il medico di famiglia per approfondire la loro situazione clinica; dovrebbero avvisare la Asl di competenza; poi dovrebbero auto-confinarsi in isolamento per 14 giorni; infine, alla fine dell’isolamento, dovrebbero sottoporsi a un tampone soprattutto se compaiono sintomi. In caso di positività, poi, gli utenti dovrebbero (sempre volontariamente) segnalarla a loro volta a Immuni.

L’obiettivo del sistema, com’è ovvio, è informare i potenziali contagiati che sono «a rischio Covid-19» prima che possano svilupparne i sintomi. Vengono insomma messi in condizione di agire molto presto, in modo da evitare di contagiare altre persone e contribuire a frenare il virus.

Il contatto tra gli utenti di Immuni viene stabilito grazie all’utilizzo della tecnologia bluetooth, scelta perché funziona anche in assenza di segnale telefonico. Il sistema adottato, «low energy», ha il pregio di non scaricare troppo velocemente la batteria del cellulare. Immuni funziona sempre, anche se viene chiusa.

Basta che lo smartphone sia acceso e che il bluetooth sia attivo. Funziona anche in «modalità aereo», ma sempre e soltanto se il bluetooth è attivo. Per attivarsi, l’app non richiede una connessione a Internet sempre attiva, però deve connettersi almeno almeno una volta al giorno per scaricare le informazioni necessarie per verificare se l’utente sia stato esposto o no a casi positivi.

Le paure per la privacy e le garanzie del governo

Il governo Conte garantisce agli utenti che Immuni rispetta totalmente la loro privacy. In effetti, a chi la scarica, l’applicazione non chiede dati sensibili come nome, cognome, data di nascita, indirizzo, numero di telefono o indirizzo e-mail. Chiede solo quale sia la provincia di residenza per «aiutare il servizio sanitario nazionale ad assisterti al meglio».

Il governo sostiene anche che Immuni non utilizza dati di geolocalizzazione di alcun genere, inclusi quelli del Gps presente in ogni smartphone. Il contatto tra utenti «avviene soltanto attraverso bluetooth ed è rigorosamente anonimo».

La tecnologia bluetooth impiegata per Immuni, sempre secondo il governo, si basa su «codici generati casualmente, che non contengono informazioni sul dispositivo o l’utente». In più, i codici «cambiano diverse volte ogni ora, così da proteggere ulteriormente la privacy». In teoria, quindi, è impossibile risalire all’identità dell’utente dai suoi codici.

Il governo ha però implicitamente ammesso che un’archiviazione dei dati, per quanto parziale, esiste: ha dichiarato infatti che «i dati sono salvati su server in Italia e gestiti dal ministero della Salute». Il governo ha però promesso che «tutti i dati salvati sul dispositivo o sui server di Immuni saranno cancellati quando non più necessari, e in ogni caso prima del 31 dicembre 2020».

Il problema di Immuni: troppo pochi utenti

Immuni è stata lanciata l’8 giugno, quando la Fase 1 della pandemia era agli sgoccioli: insomma, troppo tardi. La sua diffusione è lenta anche ora, con la seconda ondata.

L’Università di Oxford sostiene che un’app di questo tipo «riduce i contagi se raggiunge almeno il 60% degli utenti». Per Immuni il governo stima ne basterebbero 14 milioni. Malgrado il ritorno di fiamma di Covid e l’ultima battente campagna televisiva, tra il 12 e il 22 ottobre gli italiani che l’hanno scaricata sono saliti di non molto: da 8,6 a quasi 9,3 milioni, cioè 700mila in più. Sono stati pochissimi, soprattutto, i positivi che fin qui si sono auto-segnalati via app: da giugno, in totale, sono in stati appena 1.202.

In base a uno studio del centro di analisi tecnologiche Pew Research, il 71% degli italiani possiede uno smartphone, cioè 43,8 milioni di persone. Questo significa che a oggi ha scaricato Immuni il 20,7% della platea potenziale. La quota sul totale dei 61 milioni di abitanti in Italia è invece il 14,7%.

Lo stesso fondatore di Bending Spoons, Luca Ferrari, in un’intervista del 23 ottobre a Repubblica ha ammesso che «Immuni non sta svolgendo il suo compito» e che «gli utenti che si sono registrati come positivi sono un ventesimo di quel che dovrebbero essere». Per questo Ferrari suggerisce di adottare incentivi che ne amplino l’uso e propone di accelerare il caricamento dei positivi in modo semplice e veloce, perché «ogni ritardo riduce l’efficacia del sistema».

Si è da poco scoperto anche un grosso problema locale: in Veneto Immuni non è entrata in attività fino al 17 ottobre perché le Asl non registravano le segnalazioni provenienti dagli smartphone.

Risultato? In Veneto il sistema è partito con grave ritardo, e per mesi i positivi non sono stati segnalati. La polemica che ne è nata ha indotto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a varare uno dei suoi tanti Dpcm: così, dal 19 ottobre, gli operatori di prevenzione di tutte le Asl italiane sono obbligati a caricare nel sistema il codice generato dall’app di chi scopre di essere positivo e decide di comunicarlo.

Continua…

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