Ogni volta che si presenta una revisione del giudizio o dell’outlook le agenzie di rating tornano sotto i riflettori dell’opinione pubblica.
In tanti le vedono come un qualcosa che possa manipolare i mercati, che possa decidere la prosperità o la crisi di intere nazioni, al soldo della speculazione tanto che, anni fa, la procura di Trani aveva avviato un’indagine sfociata, poi, in un processo per il downgrade dell’Italia durante la crisi del debito, tra il 2011 e il 2012, e che si concluse in una bolla d’acqua.
Perché tutto questo?
Andiamo per gradi, il primo è capire cosa siano le agenzie di rating.
Queste sono delle società, il cui fine ultimo è e resta il profitto per la remunerazione degli azionisti (cosa da non scordare), che analizzano la solvibilità degli enti emettitori di titoli di debito e assegnano un giudizio (rating) basato su una scala predeterminata e non fraintendibile che va a indicare il livello di sicurezza di un’obbligazione per l’investitore.
In pratica il rating è un primo indicatore sulla capacità di rimborso dei debiti contratti sul mercato dell’emettitore dei bond e null’altro.
Questo punto è interessante e centrale poiché è intorno all’operato delle agenzie che è nata una certa mitologia sulla possibilità di manipolare i mercati quando, in realtà, ogni azione è effettuata ex post e non ex ante agli avvenimenti che sono alla base dei giudizi.
Mi spiego meglio: per poter giudicare la solvibilità di un’azienda è necessario che questa emetta del debito sui mercati, le obbligazioni per intenderci, in mancanza di queste non è possibile operare alcun giudizio di merito, ovviamente, perché non esiste alcun rischio credito non essendoci alcun titolo di debito sottoscrivile da nessuno.
Un esempio concreto?
Apple! Fino a pochi anni fa non aveva alcun rating poiché si autofinanziava direttamente per via degli ottimi incassi, poi, per questioni meramente fiscali, ecco che cominciò ad emettere obbligazioni e ricevette un giudizio che oggi è pari a Aa1 per Moody’s, AA+ per S&P e AAA per Fitch.
L’esempio di Apple, ovviamente, non è uno spot per un’azienda che, oggi, non ne ha certo bisogno ma l’immagine di cosa sia esplicitato da un rating, da quel giudizio che a fin troppa gente sembra una sentenza inappellabile quando in realtà si tratta di una valutazione che va interpretata sulla base di diversi parametri.
La prima cosa da sapere a riguardo è che esistono due forme di valutazione: sollecited rating e unsollecited rating.
La prima è direttamente richiesta e pagata dall’ente/società che si appresta ad emettere un bond sul mercato, visto che è richiesto in ogni documento di offerta al pubblico come indice sintetico di rischio e di valutazione sulla convenienza dell’investimento (inutile dire che i rendimenti obbligazionari siano inversamente proporzionali al rating, vero?); la seconda, invece, è una valutazione che nasce spontaneamente nel centro studi delle agenzie durante la normale valutazione periodica della rischiosità del credito come nel caso degli stati sovrani.
È evidente che l’azione a pagamento potrebbe far pensare ad una certa benevolenza per via della tariffa che l’emettitore dovrà pagare mentre quella spontanea potrebbe essere sospetta di eccessiva severità per spingere gli emettitori a richiedere una valutazione a pagamento; non ultimo il sospetto che possa esistere un certo conflitto di interesse interno per via della composizione societaria in capo alle agenzie non è facile che cada e, questo, fu alla base dell’indagine a Trani anche per verificare gli eventuali danni derivanti dall’operato delle agenzie stesse.
Bene, tutti questi sospetti, fortunatamente, sono campati per aria. Questo per tante ragioni, non ultima l’azione ex post delle agenzie che impedisce ogni manipolazione di un mercato che, solitamente, si muove anticipando i fattori di crisi come il caso Lehmann Brothers insegna (ricordo che i rating erano ancora al c.d. A level alcuni giorni dopo il default che fu inaspettato per tutti).
Il mercato, sembra assurdo, ma è sempre il principale livello di garanzia e quello in cui si muovono queste aziende, infatti, oltre che estremamente concorrenziale è basato sulla reputazione e, per questo, non è credibile che vi possano essere report influenzati da interessi esterni, l’oggettività delle analisi, per quanto questa sia possibile, è una condizione necessaria al mantenimento della propria credibilità di fronte agli operatori economici e base fondante del business, se questa cadesse cadrebbe anche la redditività venendo meno la richiesta di valutazioni e di analisi.
Non è un caso che le agenzie di riferimento, Moody’s, S&P e Fitch, abbiano una reputazione esemplare a livello di operatori economici e le principali concorrenti che stanno crescendo in maniera interessante, DBRS Morningstar e Egan Jones ad esempio, hanno standard di valutazione molto simili.
Un tempo, ci fu anche qualcuno che disse che ci vorrebbe un’agenzia italiana per l’emissione dei rating senza sapere che ne esistano già tre, Cerved Group, Crif Ratings e ModeFinance anche se specializzate sul rischio credito sulle aziende.
In sintesi nella storia l’attribuzione di un rating non ha mai generato alcun danno, perché avviene sempre dopo gli avvenimenti che lo abbiano generato, così è per le aziende e così è per gli stati: la crisi del debito italiana nel 2011, ad esempio, che mise a repentaglio la solvibilità del Paese e fu causa di diversi downgrade da parte di tutte le agenzie aveva cause antiche e il peggioramento dei giudizi avvenne dopo quel sell off sui mercati che portò i tassi del debito a livelli da allarme rosso e non ne fu la causa.
La vera garanzia della correttezza dell’operato delle agenzie di rating, infatti, sta nella concorrenza e nel business che risiede tutto nella loro autorevolezza, se questa cadesse cadrebbe anche tutta la loro capacità di generare reddito per gli azionisti che, ricordo, sia il fine ultimo di ognuna di queste società come già detto all’inizio del ragionamento.