Uno dei motivi per cui ci ispiriamo a George Orwell è certamente la sfrontatezza con cui ha sempre marciato in direzione ostinata e contraria a quella del politicamente corretto e del pensiero unico, anteponendo le proprie idee ai tornaconti personali.
Per lui vivere era scrivere, e lottare significava nascondere la verità sotto le mentite spoglie di finzione, per far sì che potesse, così, raggiungere le masse. Camuffare la realtà in fiction è l’equivalente dello zucchero per mandare giù la pillola amara, un geniale sotterfugio letterario che ha consentito a Eric Arthur Blair (vero nome di George Orwell, ndr) di aprire gli occhi a decine di milioni di persone in tutto il mondo rispetto all’oppressione che viene quotidianamente spacciata per libertà.
Lo ha fatto con 1984 ma anche, quattro anni prima, con La fattoria degli animali, libro che proprio oggi compie 74 anni ma che, a causa dei potentissimi messaggi in esso contenuti rispetto agli usi e costumi totalitaristici di chiara matrice comunista, uscì con due anni di ritardo rispetto a quando fu ultimato (1943), ricevendo i rifiuti di ben quattro editori, tra cui certamente spicca quello di T.S. Eliot, direttore editoriale della Faber & Faber.
In una lettera, dopo aver definito il manoscritto di Orwell «qualcosa che pochi autori hanno raggiunto da Gulliver in poi», Eliot affermò che «d’altro canto non siamo convinti che questo sia il giusto punto di vista dal quale criticare l’attuale situazione politica», peraltro dicendosi dispiaciuto perché «chiunque pubblichi questo, avrà la possibilità di pubblicare i suoi futuri lavori: e io ho molta considerazione per i suoi lavori, perché lei è un esempio di scrittura di fondamentale integrità».
Tuttavia, i quattro rifiuti pare abbiano portato bene, poiché si stima che La fattoria degli animali abbia venduto qualcosa come 20 milioni di copie in tutto il mondo, successo che sarebbe stato oggettivamente irraggiungibile se Orwell, anziché i maiali, avesse utilizzato i protagonisti veri scrivendo un saggio sul totalitarismo sovietico.
Ragionamento che possiamo tranquillamente traslare su 1984 che, va ricordato, Orwell fece di tutto per terminare prima di morire, con ogni probabilità perché conscio dell’enorme impatto sociale che il suo ultimo libro avrebbe potuto avere negli anni a venire.
Successo che dice molto in materia di comunicazione politica, soprattutto in merito all’importanza della narrazione: le storie sono lo strumento che utilizziamo con i nostri figli sin da piccoli per aiutarli a familiarizzare con i concetti più difficili, ergo anche il mezzo più efficace con noi adulti.
Il problema è che quando non riusciamo più a renderci conto di dove stia il confine tra verità e finzione cominciamo a ragionare per induzione trasformandoci, giorno dopo giorno, in incosapevoli ingranaggi della grande e ruggente macchina della propaganda capace – per dirla con Orwell – «di distorcere il pensiero distorcendo il linguaggio».