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Dieci domande

Roberta Scorranese: «La vera contrapposizione sta tra approfondimento e superficialità»

Roberta Scorranese è abruzzese di nascita ma vive a Milano. Giornalista, lavora al Corriere della Sera, dove si occupa di temi culturali e di attualità, ed è condirettore scientifico del Master post laurea Management della Cultura e dei Beni Artistici nella Rcs Academy Business School. La sua è senz’altro una delle penne più riconoscibili, di quelle a cui ci si affeziona, perché capace di stabilire un contatto con il lettore, indipendentemente dal tema trattato o dal fatto che stiamo leggendo un articolo, un tweet o uno dei suoi libri. Pur non essendo scontato, l’origine di questa grande qualità la ritroviamo facilmente nel filo coonduttore di ogni sua singola frase: lei, Roberta.

Ormai, scrivere un articolo giornalistico significa, spesso, dover trovare qualcosa che non solo possa essere interessante per il lettore, ma che abbia anche gli elementi giusti a livello di immagine (foto, video e audio) per poter diventare virale sui social: questo, a suo avviso, limita o esalta la capacità di scelta del giornalista?

Non credo che la finalità sia “diventare virale sui social”, o, almeno, non è quello che a noi del Corriere della Sera interessa prima di tutto. Elementi come audio, video e foto servono solo se possono arricchire un contenuto che, di per sé, deve essere già consistente. Altrimenti si tratta di un precario blablabla.

Spesso si sente dire che Internet è il posto delle “fast-food news”, perché ormai gli utenti hanno poco tempo e leggono solo notizie brevi. Tuttavia, di recente, c’è chi si è inventato le “slow news” come alternativa a questo approccio. Lei da che parte sta?

Credo che una notizia ben verificata e diffusa magari più tardi, però confezionata con accortezza sia meglio di una notizia lanciata prima di tutti ma con deboli appigli di credibilità. E poi non sono convinta che i lettori leggano solo testi brevi. Molti dei nostri “articoli più letti” sul sito sono long form stories.

Come scriveva Walter Lippmann, le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. È evidente che il fenomeno fake news vada ben oltre le classiche “bufale” e che prolifichi a seguito della ricerca spasmodica di “like” e di visualizzazioni. Secondo lei cosa manca ai media, e ai giornalisti più in generale, per riconquistare la credibilità perduta?

Da anni in Italia (rimaniamo nel nostro Paese) molti giornalisti si stanno costruendo una solida reputazione, non con il lavoro quotidiano solo nei rispettivi media, ma anche sui social. Un post, un tweet, una foto: ogni cosa – anche se diffusa in un ambiente diverso da quello strettamente legato al proprio lavoro – deve essere verificata, credibile, scritta bene. Non solo il mezzo è diventato il messaggio ma anche il giornalista poco per volta lo sta diventando. Come posso credere che il giornalista X sia affidabile quando scrive sul suo giornale se poi, su Facebook, dà spazio a una notizia palesemente falsa?

Come detto, in Italia così come altrove, la popolarità professionale dei giornalisti (e della professione giornalistica) è ai minimi storici. Qual è, secondo lei, l’errore più grave che commettono gli operatori del settore?

Non è ai minimi storici. Ai minimi storici è la dignità di chi crede (e vuole credere) alla disinformazione, che oggi è facile da definire, isolare, emarginare.

Al di là di quello che ritiene qualche politico ci pare evidente ormai, a livello globale, che il bipolarismo non sia più tra destra e sinistra, bensì tra élite di garantiti e popolo dei non rappresentati. A questo si aggiunge il paradosso tutto italiano di una democrazia orfana degli spazi in cui una classe dirigente possa nascere e crescere per formazione e non per cooptazione. Su quali basi e con quali strumenti (anche informativi) sarà possibile – secondo lei – costruire una nuova e autentica connessione tra popolo e classi dirigenti?

A me non pare evidente che la bipolarità sia tra “élite” e “non rappresentati”. A mio parere la vera contrapposizione sta tra approfondimento e superficialità, competenza e demagogia, serietà e sterile provocazione.

Come accadde in passato con la televisione, oggi sono le esigenze del Web a controllare la nostra cultura e, in Internet, si vive o si muore di click, perché garantiscono potere e profitti della pubblicità. Esiste, secondo lei, un modo per superare il dualismo Google-Facebook?

Regolamentando le modalità con cui alcune piattaforme diffondono le notizie, prese da altri cannibalizzando il lavoro di molti. Ma se la domanda è “basta mettere i paletti?” la risposta è certamente no. Credo che questa sia la grande partita da giocare nei prossimi anni. Come ogni bravo addetto all’informazione non ho e non cerco ricette infallibili, però sono convinta che quotidiani, siti, televisioni, riviste e radio debbano fare un passo avanti e diventare dei “microcosmi di informazione”. Prendiamo il caso di un quotidiano: la carta, il web, l’app per i telefonini, la digital edition, i supplementi, gli eventi live, i festival (per quel che riguarda il Correre anche i Viaggi culturali e la nuova Business Academy). Tutto è emanazione di un’unica voce e ogni ramo si alimenta con gli stessi principi: credibilità, autorevolezza, fantasia e un po’ di coraggio visionario.

Grazie a Snowden sappiamo che Orwell aveva ragione e che ogni singola azione che compiamo online viene intercettata, monitorata e catalogata. Questo significa controllo, che a sua volta è un sensazionale strumento di potere aumentato dalle “censure” imposte grazie ai luoghi comuni politicamente corretti. Quanto di questo “totalitarismo tecnologico”, ritiene che sia oggettivamente colpa di chi dovrebbe informare correttamente, ovvero dei giornalisti?

Perdonatemi, ma «sappiamo che Orwell aveva ragione» è una frase che potrei leggere in un romanzo distopico, mai in una discussione sul futuro dell’informazione. Se rispondessi ad una domanda che contiene una frase simile verrei meno a principi di verifica delle fonti, umiltà nella narrazione, onestà e non vado avanti perché sennò dovrei elencare i (troppi) cardini di questo mestiere. E dico “mestiere” non “professione”: è più artigianale di quanto si pensi.

Una delle suggestioni più frequenti tra gli addetti alla informazione è quella “robot journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. In prospettiva, lo vede più come un’opportunità o una minaccia?

No, anzi. Se un giorno mi si presentasse (ma intendo in senso fisico!) davanti uno di questi robot lo sfiderei in gare di scrittura, comprensione del testo, capacità di raccontare un personaggio in un’intervista. E, non da ultimo, in una gara di felicità. Perché questo mestiere rende felici se fatto come si deve.

Secondo lei esiste una anche remota possibilità che il giornalismo – inteso come istituzione – possa scomparire per essere sostituito da un nuovo modo di trasmettere la conoscenza alle persone magari in maniera “meccanica”, o comunque con la definitiva affermazione del principio di induzione che attualmente gli algoritmi utilizzano per “selezionare” le notizie al posto nostro?

Certo, ma non sarà più giornalismo. Tutto qui.

Come leggeremo le notizie tra 5 anni?

Se continueremo – con costanza e pazienza – a lavorare sull’integrazione dei contenuti e delle piattaforme, a valorizzare quella voce unica di cui parlavo poc’anzi, penso tra cinque anni che leggeremo le notizie sulla carta, sul pc, sui telefonini e dal vivo. Potrebbe essere divertente.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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