Shanghai – Il loro Internet, la loro lingua, il loro sistema: o ti adegui o sei tagliato fuori. Piaccia o meno è così che stanno le cose in Cina, un paese che se potesse guardarsi allo specchio oggi, dopo 70 anni sotto i ferri del regime comunista, probabilmente reagirebbe con la stessa espressione inorridita del memorabile Jocker interpretato da Jack Nickolson all’inizio del primo Batman di Tim Burton.
Un paio di paradossi
Il primo: dopo la distruzione perpetrata dalle guardie rosse durante la rivoluzione culturale maoista, hanno sostituito gran parte della propria tradizione millenaria con il backup di tutti gli stereotipi dei nemici dichiarati, gli odiati Yankee: un modello culturale globalizzato, città piene di grattacieli, grandi brand e alta tecnologia, con l’obiettivo di un’economia che ruggisse. Il Pil dell’avvenire, insomma.
Secondo paradosso: siffatta trasformazione rende di gran lunga più autentica la Cina riprodotta nelle città americane, che non la Cina che si rifà i connotati per somigliare essa stessa all’America.
La censura del Web: il Great Firewall cinese
Non ci sono VPN che tengano: quando un occidentale mette piede qui deve rassegnarsi a perdere gran parte dei propri punti di riferimento digitali. Il sistema operativo Android è limitato, molti siti sono bloccati, con quasi tutti gli altri sembra di essere tornati ai tempi del modem a 56k, e poi social, applicazioni, Gps e chi più ne ha più ne metta. Insomma, scordiamoci Twitter, Facebook, Instagram, Pinterest, WhatsApp, Telegram e, ça va sans dire, tutti i servizi di Google, Maps compreso.
Di punto in bianco ci si ritrova catapultati indietro di trent’anni, il che in termini astratti potrebbe anche sembrare liberatorio, ma nel concreto diventa un vero e proprio limite, soprattutto se consideriamo che si tratta in gran parte di strumenti indispensabili per lavorare, comunicare e, banalmente, poter girare per strada trovando ciò che cerchiamo e senza perderci in continuazione mentre ci troviamo in un paese che non è il nostro.
Sempre sotto controllo
Avete presente il Big Brother orwelliano che, alle nostre latitudini, tutto vede e tutto sente? Ebbene, fate conto che quello cinese sia il suo fratello maggiore, non tanto in termini anagrafici, ma di dimensioni.
Le telecamere di riconoscimento facciale sono disseminate praticamente in ogni dove – fatti forse salvo i centri rurali al di fuori delle città grandi e medie – in ogni accesso a treni e metropolitane vengono chiesti documenti e controllati i bagagli, mentre attraverso WeChat è possibile fare praticamente ogni cosa, compresi pagamenti e trasferimenti di danaro.Se consideriamo che il 75% dei cinesi acquista online e che questo immenso database di dati è di proprietà del Ministero dell’Industria e dell’Information Technology della Repubblica Popolare Cinese, abbiamo la misura di quanto ogni singola vita sia tenuta costantemente sotto i raggi X.
Da tutto ciò si evincono facilmente i motivi di quest’autarchia digitale e linguistica: potere e controllo. Perché mai, devono essersi chiesti a Pechino, lasciare tutto questo ben di dio in termini di soldi e dati nelle mani delle BigWeb Companies Made in Usa? Chi vuole stare qui deve accettare le regole d’ingaggio imposte dal regime, dalla censura all’ubicazione dei server, che deve essere tassativamente sul suolo nazionale.
Grandi Fratelli a confronto
Partiamo da una considerazione, e cioè che la disapprovazione di noi occidentali per la censura a Google e Facebook è speculare a quella dei cinesi riguardo al nostro grado di sottomissione ai succitati colossi del Web, avendoli lasciati sostanzialmente liberi di fagocitare quasi per intero due cardini della nostra società: informazione e comunicazione.
Per noi quest’ultima osservazione è un fatto oggettivo, a tal punto che risultiamo a tutt’oggi tra i pochi ad aver sollevato la questione del regime di duopolio a cui siamo sottoposti, anche mettendoci in gioco con un progetto come quello di Orwell, con il quale intendiamo offrire il nostro contributo affinché possa esserci un riequilibrio tra le forze in campo.
Inoltre, come abbiamo ampiamente documentato nel corso degli ultimi mesi, anche tutti noi siamo sottoposti a censura, ovvero quella imposta da Zuckerberg & Co. attraverso gli algoritmi mediante i quali governano le loro piattaforme; qualsiasi concetto che viene considerato – per mezzo di criteri del tutto arbitrari – ostile al politicamente corretto imposto dal mainstream si colloca automaticamente tra i contenuti “censurabili”, e quindi da rimuovere.
In questo senso, il grande specchietto per le allodole è il tema delle fake news, che viene utilizzato in maniera fuorviante per far passare il concetto che tutto ciò che non si omologa al pensiero unico sia automaticamente fake. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi, coloro i quali si autonominano paladini indefessi della verità, sono i primi a sfornare una menzogna dietro l’altra pur di dare fiato alla loro narrazione.
Gli interessi nazionali e la sfida globale
Al netto delle questioni poste fin’ora, è indubbio che la Cina sia un punto di riferimento per chiunque intenda ampliare gli orizzonti del proprio business. Personalmente nei giorni scorsi ho avuto l’opportunità di toccare con mano la grande attenzione che nutrono per il mondo delle nuove tecnologie, per lo sviluppo delle quali mettono a disposizione ingentissime somme per finanziare in loco i progetti che ritengono particolarmente interessanti.
Altro punto a loro favore sono le infrastrutture che vengono messe a disposizione degli imprenditori, tutte assolutamente all’avanguardia sia dal punto di vista architettonico che per ciò che concerne i servizi annessi e connessi, vedi alle voci banda ultralarga e la nascitura 5G, per non parlare delle agevolazioni fiscali e di una burocrazia infinitamente più snella della nostra (non ci vuole tanto, direte voi).
È del tutto evidente che l’obiettivo sia quello di conquistare in tempi brevi il primato nel settore tecnologico, ovviamente a scapito dell’Occidente. In quest’ottica, se da una parte è sacrosanto che molti governi occidentali stiano comprendendo – sia pur con colpevole ritardo – l’importanza di tutelare gli interessi nazionali, dall’altra è fondamentale imparare in fretta la lezione e cominciare a investire seriamente in tecnologia e innovazione; attenzione, però, non soltanto in termini imprenditoriali, ma anche infrastrutturali.
Se qualcuno non se ne fosse ancora reso conto, quella in corso è una fase di sviluppo che porterà ben presto i governi di tutto il pianeta a doversi dotare a forme sostanziali di e-democracy che vadano incontro alla nuova necessità dei popoli – maturata nell’ultimo decennio grazie al Web – di partecipare ai processi decisionali sui temi che li riguardano.
Chi s’illude di non essere tenuto a farlo si ostinerà a conservare un sistema monco, in cui le liturgie di governo appannaggio delle élite non hanno ormai più la forza per fare da contrappeso ai nuovi codici comportamentali introdotti da Internet, e finirà con l’esserne fagocitato.
Una sfida che aspetta tutti al varco, Cina compresa.