«Ale, quando vieni a casa mia? Vorrei farti un ritratto con una nuova tecnica che sto mettendo a punto. Fidati, è una figata.», la voce dall’altra parte del telefono era quella di Emanuele Scilleri, che mi aveva chiamato ad un orario indefinito di un giorno qualsiasi, alcuni mesi fa. Ovviamente gli risposi subito di sì: mi faceva piacere rivederlo ed ero curiosissimo di vedere cos’altro si fosse inventato.
Premetto che quello è stato un periodo molto particolare, per diversi aspetti complesso, ma anche di rinascita. Mi sentivo come in un videogame: ogni giorno dovevo conquistarmi il lasciapassare per lo schermo successivo sconfiggendo un mostro sempre più grande e pericoloso. Avete presente quando il vostro monitor è pieno di nemici da colpire e pallottole da schivare? Chi, come il sottoscritto, ha un passato da “smanettone” ha capito perfettamente a cosa mi riferisco.
«Ottimo Ale!», esclamò Emanuele non appena gli risposi di sì, «dovrò fotografarti con un oggetto che ti caratterizzi e per come ti conosco io non possono che essere i guantoni da boxe: tu sei un guerriero.». Giuro che quell’affermazione, in quel preciso momento della mia vita, mi emozionò al punto di scuotermi, smuovendomi qualcosa dentro. Mi venne il magone e gli domandai se lo pensasse davvero.
«Cazzo Ale, certo che sì, scherzi?», mi rintuzzò lui. Okay, che guantoni siano, pensai. Ché, poi, in realtà io non ho mai fatto boxe, ma anni addietro feci un corso di kick boxe o qualcosa del genere, un surrogato, insomma. Epperò nella mia vita c’è Rocky. Già, proprio così: la storia del giovane Sylvester Stallone sul lastrico che rifiuta un mucchio di dollari per la sua sceneggiatura rispondendo «o lo interpreto io o niente», è tra quelle che più di tutte mi hanno ispirato.
Sì, l’idea di farmi fotografare così mi piace, pensai, mentre guardavo la scritta “gli occhi della tigre” che mi feci tatuare sul braccio sinistro, proprio sotto al volto di Rocky. In un attimo mi ripassarono davanti gli ultimi mesi della mia vita. Questo sono io, un guerriero! sussurrai orgogliosamente alzando gli occhi e guardando la mia immagine riflessa nello specchio. Nemmeno 48 ore dopo, quello stesso mio riflesso era in una lastra rettangolare di marmo labrador blu.
«Una notte, durante il lockdown», spiegò Emanuele, «ero in giro per il centro storico di Como a fare foto ai manichini esposti nelle vetrine di alcuni negozi e, istintivamente, ne scattai una alla parete di marmo che li rifletteva: quando la vidi mi si aprì un mondo.», da lì in poi partì raccontandomi nel dettaglio come sviluppò quell’intuizione unica e geniale facendone una vera e propria tecnica. Mentre lo ascoltavo godevo: che soddisfazione vedere un amico caro nel mezzo di un’ispirazione così intensa!
«Adesso infilati i guantoni ma tieni la camicia, poi guarda la lastra di marmo e comincia a muoverti», mi disse lui. Io prendevo a pugni l’aria ed Emanuele scattava. Per un attimo mi sentii come Rocky quando Mickey gli disse che doveva acchiappare una gallina, poi pensai che dovevo solo essere me stesso e perciò smisi di pensare.
Quando ci fermammo guardò nel display della fotocamera, poi alzò gli occhi e mi sorrise: «Ale guarda, sei tu!», esclamò. In effetti, ogni volta che riguardo queste tre foto mi ci rivedo a tal punto da pensare che ognuna di esse racconti molte verità che Emanuele ha scolpito nel marmo. Catturandole per sempre.