Oggi come mai prima d’ora il tempo è il vero campo di gioco su cui hanno luogo le sfide contemporanee più rilevanti, in ogni ambito produttivo e sociale. Si tratta di un tema complesso se viene affrontato parzialmente, viceversa diventa estremamente chiaro se contestualizzato con un approccio che tenga conto di tutti gli elementi che contribuiscono a determinarne la centralità. Per cominciare è fondamentale delineare lo scenario di un fenomeno che è iniziato ben prima della pandemia, cioè la frammentazione del tempo.
Una delle tappe più importanti è certamente quella avvenuta il 9 gennaio del 2007 al Moscone Convention Center di San Francisco, dove Steve Jobs presentò il primo iPhone: in un solo colpo rivoluzionò le nostre vite introducendo lo smartphone e, con esso, il concetto di connessione perenne. Fino ad allora, a causa della pessima user experience offerta dai device in circolazione, la nostra esperienza online era perlopiù circoscritta al perimetro della scrivania: una volta spento il computer eravamo sostanzialmente liberi, al netto di messaggi sms e qualche email.
Da quel giorno in poi l’umanità cominciò ad avere il Web in tasca, abituandosi a utilizzarlo non soltanto per relazionarsi con gli altri attraverso i social network, ma anche a fruire di servizi attraverso app diverse, ma al contempo unite da un minimo comune denominatore che è la semplificazione.
Oggi i numeri ci dicono che in Italia mediamente siamo connessi 6 ore e 54 minuti al giorno (fonte Digital 2021 di We are social, ndr), sottoponendoci alle sollecitazioni di una mole enorme di input, al punto che ogni secondo i nostri sensi trasmettono circa 11 milioni di bit d’informazioni al cervello, più o meno come se avessimo un gigantesco cavo in fibra ottica collegato alla testa.
Altro dato fondamentale per mettere a fuoco la questione è quello relativo all’accesso all’informazione online che – come spiega Agcom nel “Rapporto sul consumo dell’informazione” – avviene soprattutto attraverso fonti algoritmiche, cioè non direttamente dalle fonti che pubblicano le notizie, ma dalle piattaforme che ce le sottopongono in base alla nostra profilazione.
Con quest’ultimo concetto siamo giunti al centro della questione, ovvero che il nostro tempo è la fonte di guadagno primaria delle BigTech, che hanno sviluppato un modello di business che si fonda sulle ore che trascorriamo sulle loro piattaforme, essenzialmente per due motivi.
Anzitutto perché attraverso ogni singola azione che compiamo online forniamo loro informazioni sui nostri gusti, le nostre idee o la nostra capienza economica e, conseguentemente, perché grazie ai nostri dati possono vendere il nostro tempo e la reltiva attenzione a chi intende proporre i propri prodotti o servizi a colpo sicuro, ovvero mostrandoli a target di persone rispondenti a determinate caratteristiche.
Ciò significa che ogni singolo contenuto, sia esso la notizia di un quotidiano autorevole o il post di un perfetto sconosciuto, rappresenta l’esca per catturare il nostro tempo attraverso le innumerevoli notifiche che ci distolgono in continuazione da quello che facciamo (o dovremmo fare) nella vita reale.
Volendo andare dritti al punto, se i legislatori – che finalmente, sia in Europa sia negli Stati Uniti, cominciano timidamente ad affrontare la questione – intendessero ridimensionare il sostanziale monopolio dei giganti del Web, una soluzione ce l’avrebbero: tassarli in base al tempo che noi utenti trascorriamo sulle loro piattaforme.
Difficile che ciò avvenga per mano di istituzioni che dimostrano ancora eccessiva benevolenza (eufemismo), ma tuttavia la rilevanza che l’essere umano mantiene deve esserci di sprone e di conforto. Questo perché se come individui e realtà produttive acquisiremo il giusto grado di consapevolezza rispetto al terreno di gioco su cui siamo obbligati a misurarci, allora riusciremo a sfruttare le immense opportunità derivanti da questo nuovo paradigma e, insieme, a riconquistare il pieno controllo di ciò che più di tutto determina la messa a frutto del tempo di cui disponiamo. Noi.