A Luciano De Crescenzo debbo molto, anche se non l’ho mai conosciuto, ma, come probabilmente obietterebbe lui, incontrarsi e conoscersi non sono sinonimi. Pensandoci bene, in realtà gli sono debitore proprio perché lo conosco molto bene, grazie alle riflessioni spesso illuminanti che ha condiviso attraverso i suoi libri, i suoi film e le sue trasmissioni che più che televisive erano divulgative.
Pensate che esageri sull’onda del trasporto emotivo per la sua morte? Ma quando mai! Piuttosto sto cercando di darmi un contegno, perché se dovessi mettere per iscritto tutto quello che mi passa per la mente da quando, qualche ora fa, ho appreso la triste notizia, più che un articolo dovrei mettermi a scrivere il settimo libro.
A questo proposito mi concedo una parentesi, breve e utile per contestualizzare il mio stato d’animo: ho letto la notizia mentre ero a bordo di un Uber (l’auto, non il poliziotto svizzero) e avevo il telefono scarico e il computer nel bagagliaio, dopo un’ora e mezza di viaggio finalmente arriviamo in aeroporto (sto rientrando da Londra, dove mi trovavo per lavoro) ma le operazioni di controllo non finivano mai, poi non ho fatto in tempo a sedermi che subito mi sono dovuto alzare per correre al gate, che ci è stato comunicato in ritardo. Per farvi capire il grado di avversità, esattamente mentre scrivevo questo passaggio, una hostess mi ha invitato a chiudere il computer perché stavano per cominciare le operazioni di decollo, che sono durate mezz’ora. Ovvio, no? Ora, però, a meno che qualcuno decida di dirottare l’aereo, utilizzerò fino all’ultimo il dieci per cento di batteria che mi rimane per scrivere del mio rapporto con Luciano De Crescenzo.
Come dicevo, gli devo veramente molto, poiché è stato capace di farmi appassionare a diverse cose diventate, poi, per me molto importanti. Ad esempio, vogliamo parlare dell’informatica? Sì, l’informatica, i computer. Non sono in molti a ricordare che negli anni ottanta De Crescenzo – che, nella sua precedente vita lavorativa, era un ingegnere dell’IBM – condusse sulle reti Mediaset (Italia Uno, mi pare) un programma intitolato Bit, in cui letteralmente raccontava le tendenze della rivoluzione in atto.
Il suo grande merito fu quello di parlare di un argomento potenzialmente noiosissimo utilizzando un tono e un linguaggio capaci di appassionare milioni di italiani, facendoli innamorare di un mondo che allora era tutto da scoprire.
Difatti egli fu, a mio modestissimo avviso, il più grande alfabetizzatore digitale nostrano, tant’è che quando cominciai a scrivere Orwell, pensai subito che avrei dovuto intervistarlo proprio su quel periodo. Una sua testimonianza, pensai, sarebbe stato un valore aggiunto enorme per un libro la cui prima parte è interamente dedicata agli avvenimenti più importanti della rivoluzione digitale, a partire dalle prime console e dai personal computer. Chiamai un ufficio stampa a lui vicino, chiedendo se fosse stato possibile contattarlo per domandargli se avesse avuto voglia di rispondere a qualche mia domanda, ma l’esito fu negativo. «Ultimamente è molto stanco, si concede poco», mi dissero.
Così dovetti accontentami di citare un passaggio del suo libro intitolato Il Caffè sospeso, nel quale affermava che «un vantaggio fin troppo evidente di Internet è l’interattività. Spieghiamo di cosa si tratta: Socrate in un dialogo di Platone, il Fedro, si scaglia contro la scrittura. Danneggerà, diceva, le nostre qualità mnemoniche. Sapendo di possedere tutta la conoscenza in un libro, non ci sforzeremo più di ricordare e questo ci renderà peggiori. Un libro, precisava, può rispondere in un solo modo: quello già deciso dall’autore. Dialogare con un libro è inutile: è come parlare con una statua. Con Internet, invece, è possibile il dialogo. Chiedere maggiori informazioni su ciò che ci interessa, se non, addirittura, personalizzare le risposte.»
Insomma, tra le righe ci ha spiegato – in tempi non sospetti, dato che il libro è del 2008 – che il presupposto per sfruttare al meglio Internet è la curiosità.
Ché, guarda caso, è la medesima virtù che gli ha dato l’impulso di vivere una vita da sperimentatore e, grazie al Cielo, di raccontarcela passo per passo, con ogni probabilità perché era curioso di sapere cosa ne pensava il prossimo, cioè noi.