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Una scena della piece teatrale ‘Bradass87’

Speciale Wikileaks

L’inferno di “Bradass87”

Fa molto caldo a Camp Arifjan, in Kuwait, nella base militare in cui Bradley Manning è destinato dopo l’arresto causato dal “tradimento” dell’amico Adrian Lamo.
L’ex analista d’intelligence assaggia personalmente, dopo aver rovistato per lungo tempo tra migliaia di file che ne documentavano gli abusi, i metodi di trattamento “Guantanamo” applicati dall’esercito americano ai prigionieri di guerra.

La cella messa a sua disposizione è di piccole dimensioni; uno spazio angusto che misura due metri e mezzo per due metri e mezzo. 1
Solo per fornire un termine di paragone con un altro noto stambugio, la “prigione del popolo”, improvvisata dai brigatisti per tener segregato Aldo Moro, era larga meno di un metro e lunga quattro.

Come racconta L’Espresso 2, Manning rimane rinchiuso in questo loculo “per ventitré ore al giorno, per cinquantanove giorni” (arresto fine maggio 2010); unica compagnia le sbarre alla finestra , un gabinetto e uno scaffale dove riporre…il nulla.
Nessuna visita concessa (nemmeno i parenti), vietata la televisione e negata, la lettura dei giornali.

“Ho pensato di morire in quella gabbia – dichiarerà a un giudice della Corte Marziale tempo dopo -, perché così la consideravo, una gabbia per animali”.

Durante il “soggiorno” in Kuwait, a Manning vengono presentati i capi d’incriminazione legati alla sua detenzione: aver “trasferito informazioni classificate sul suo personal computer e installato un software non autorizzato su un computer parte di un sistema classificato, in relazione alla fuga di notizie attraverso un video su un attacco in Iraq portato nel 2007 con un elicottero. Inoltre, “aver comunicato, trasmesso e recapitato informazioni della Difesa a una fonte non autorizzata e aver rivelato informazioni segrete relative alla difesa nazionale, essendo consapevole che quelle informazioni avrebbero potuto danneggiare gli Stati Uniti”. 3

Il peggio, però, è distante poco più di 10.000 chilometri. La distanza, cioè, che separa “Bradass87” dalla nuova destinazione negli Stati Uniti.

Probabilmente l’inferno, nei suoi tormenti adolescenziali, Manning l’aveva immaginato più confortevole rispetto alle privazioni cui verrà sottoposto nella base di Quantico, in Virginia.

Senza un processo né una condanna, Manning affronta, per nove lunghissimi mesi, un regime di custodia vergognoso per una democrazia compiuta.

Isolato per ventitré ore al giorno, mantiene un minimo di reattività muscolare nell’unica finestra dedicata agli esercizi fisici: un’ora in cui disegna degli “8” immaginari nella sua cella due metri per quattro.
Sembra di assistere a una realistica rappresentazione de “La ronda dei carcerati” di Van Gogh.

Le urla delle guardie fanno da sveglia e scandiscono, dalle 5 del mattino, i tempi della giornata. Da questo momento in poi il detenuto Manning non è più autorizzato a stendersi. Se prova a farlo, intervengono immediatamente i sorveglianti per rimetterlo seduto oppure in piedi.

Il protocollo prevede una vigilanza asfissiante. Ogni cinque minuti viene chiesto a Manning “se tutto è a posto”.
Per il nuovo arrivato a Quantico, anche il contatto con la luce del sole viaggia cadenzato al ritmo dei minuti. Pochi, peraltro. Attimi che passano rapidamente. Una ventina in tutto, incatenato e guardato a vista.

Un autentico tormento.

Nemmeno il calare della notte, mantello dietro cui Manning si ripara per fronteggiare la paura, smorza la vendetta dell’autorità.
Anzi. Basta una coperta a occultare il viso, oppure l’orientamento del corpo rivolto verso il muro durante il riposo, per autorizzare l’intervento degli agenti.

Manning, per regolamento, dorme (senza cuscino né lenzuola, spesso completamente nudo al fine di “prevenire atti estremi oppure autolesionistici”) dalle 13 alle 23, con il viso rivolto alla lampada, ovviamente accesa.
«La cosa più divertente della mia cella – racconterà – era lo specchio. Puoi interagire con te stesso. Ho passato molto tempo con lui».

Tuttavia, qualcosa si muove. In sostegno del ragazzo di Crescent arrivano, inaspettate, le parole di P. J. Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato: «Ciò che sta subendo Manning è assurdo, controproducente e stupido». Dichiarazioni che, poco dopo, porteranno alle sue dimissioni.

Un gesto che costringe Barack Obama sulla difensiva (“quello che da senatore giocava al paladino dei whistleblower, ma che da presidente ne ha perseguiti più di tutti i precedenti messi insieme”4).
«Ho chiesto al Pentagono – dice Obama – se le procedure siano appropriate. Mi hanno risposto di sì».

Una risposta, però, che contrasta con il documento stilato dal relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, Juan Mendez; una memoria, infatti, incentrata sul trattamento “crudele e disumano” subito da Manning. 5

Alla fine di agosto del 2013, giunge, inesorabile, la condanna della Corte marziale per Bradley Manning: 35 anni di detenzione, in quanto colpevole di 20 dei 21 capi d’accusa a lui attribuiti. Per sua fortuna non gli viene contestato il più grave (che prevede la pena capitale), cioè la “connivenza con il nemico”.

A poche ore dalla sentenza, con una nota ufficiale inviata al programma “Today” della rete televisiva Nbc, Bradley Manning (cui era già stata diagnosticata in carcere la “gender dysphoria”), comincia la personale lotta per l’identità sessuale.
«Voglio essere sottoposto -si legge nella nota – a una terapia di ormoni il prima possibile. Mi auguro che appoggerete la mia transizione. Chiedo che a partire da oggi mi chiamiate con il mio nome femminile, Chelsea». 6

Nonostante i mille ostacoli incontrati, soprattutto a causa dell’azione di disturbo intrapresa dal Governo e dopo due tentativi di suicidio, Chelsea vince, nel 2016, (sostenuta dell’avvocato Chase Strangio, operativo in Aclu, una delle principali associazioni americane per i diritti civili) la sua battaglia di dignità.

Sul finire del suo secondo mandato il presidente Obama, con un gesto di clemenza, riduce a sette anni la pena inflitta a Manning (scarcerazione prevista nel 2045).

Per sostenere la liberazione di Chelsea, nel frattempo, si erano mossi sia Edward Snowden (con un appello via twitter) 7, sia Wikileaks per voce del suo fondatore, Julian Assange.

Il 17 maggio 2017, Chelsea Manning, dopo aver scontato sette anni di carcere lascia, da donna libera, il carcere di Fort Leavenworth.
«Per la prima volta, vedo un futuro come Chelsea. Arrivo a immaginarmi sopravvivere e vivere nella pelle della persona che sono nel mondo esterno».

Sembra la fine di un incubo e l’inizio di un nuovo percorso. Sarà così fino all’8 marzo 2019… (segue).

 

 

Note

1 Fabio Chiusi, “Chelsea Manning ora è libera, ma la sua prigionia è stata un inferno”, L’Espresso
2 Fabio Chiusi, “Chelsea Manning ora è libera, ma la sua prigionia è stata un inferno”, L’Espresso
3 David Leigh, Luke Harding, “Wikileaks, La battaglia di Juliana Assange contro il segreto di Stato”, Nutrimenti
4 Fabio Chiusi, “Chelsea Manning ora è libera, ma la sua prigionia è stata un inferno”, L’Espresso
5 Ed Pilkington, “Bradley Manning’s treatment was cruel and inhuman, UN torture chief rules”, The Guardian 6 Manning : «Sono donna, voglio essere chiamato Chelsea», Corriere della Sera
7 https://twitter.com/Snowden/status/819177951040249856

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