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Coronavirus

Coronavirus: una prospettiva psicologica

«Non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano». Con questa frase il celebre neuroscienziato Antonio Damasio nel suo libro “L’Errore di Cartesio” descrive con un’immagine immediata e semplice ciò che avviene ogni volta che prendiamo una decisione o esprimiamo un’opinione.

Anche se ci piace credere di essere totalmente razionali, in realtà non lo siamo, semplicemente perché non lo possiamo essere. La prima risposta a un qualsiasi stimolo esterno è infatti emotiva, istintiva e automatica. Solo successivamente si attiva il circuito del pensiero deliberato e attribuiamo un significato razionale a ciò che è successo, alla nostra decisione o azione. Non siamo quindi razionali, ma “razionalizzatori” a posteriori e le emozioni giocano un ruolo cruciale nelle nostre azioni, molto più di quanto crediamo.

Questo modo di agire le centinaia di decisioni che prendiamo quotidianamente, ha delle ragioni adattive, legate alla necessità di risparmiare risorse cognitive. Simon, già negli anni ’50, riassumeva in tre assunti le ragioni per le quali non possiamo essere “macchine razionali”:

1) non possiamo disporre di tutte le informazioni su un determinato argomento;
2) non riusciremmo in ogni caso ad elaborarle tutte;
3) il tempo necessario a un simile processo di elaborazione sarebbe infinitamente superiore a quello generalmente destinato alla presa di decisione.

Quello che succede nella realtà è che le persone fanno ricorso a delle semplificazioni, delle “scorciatoie cognitive”, che prendono il nome di euristiche e possono indurre a errori decisionali, detti bias. In una situazione di pericolo percepito, in cui la reazione deve essere rapida, si accentua ancora di più la tendenza automatica e inconsapevole, a fare ricorso a questi ragionamenti semplificati.

Alcuni esempi di euristiche descrivono perfettamente come possa venire alterata la percezione del rischio in una situazione come quella attuale legata al timore per il corona virus. In particolare, l’euristica della rappresentatività descrive la tendenza a emettere giudizi su persone e situazioni in base a quanto queste somiglino a determinati prototipi mentali (gli stereotipi ne sono un esempio).

Nel caso specifico, è l’automatismo che ci porta ad associare una persona asiatica che incontriamo per strada alla possibilità di contagio e, quindi, a preoccuparci maggiormente. Questo fenomeno può acuirsi e sfociare in situazioni di discriminazione, razzismo e addirittura violenza, come quelli ai quali abbiamo tristemente assistito nei giorni scorsi.

Un’altra scorciatoia cognitiva molto comune è l’euristica della disponibilità, per la quale si tende a stimare la probabilità di un evento sulla base della vividezza di un ricordo, piuttosto che sulla sua probabilità oggettiva. E gli eventi più disponibili sono quelli con un impatto emotivo più forte. Risulta quindi evidente come una comunicazione basata su una terminologia che richiama alla mente scenari dal forte impatto emotivo (ad esempio “epidemia”, “emergenza”, “pandemia”) possa far sembrare più probabile e rischioso un determinato evento, quale la possibilità di contrarre una malattia.

Continuando la nostra riflessione sull’impatto della comunicazione, vale la pena soffermarsi sull’effetto framing, ossia il meccanismo per il quale tendiamo a interpretare le informazioni a seconda del contesto in cui vengono presentate. A tale proposito, è particolarmente esplicativo un esempio riportato da Tversky e Kahneman, che sottoposero a due gruppi omogenei di persone lo stesso dilemma, in due formulazioni differenti. Rileggendolo alla luce della situazione odierna, è quasi ironico che i due autori facessero riferimento a un “morbo asiatico”.

Il testo del dilemma era il seguente: “Immaginate che gli Stati Uniti si stiano preparando ad affrontare una malattia asiatica che, considerata l’eccezionale gravità, dovrebbe causare la morte di 600 persone. Per fronteggiare questo evento vengono proposti due programmi d’intervento alternativi.”

La prima formulazione del problema prevedeva due alternative:

  • Se si adotta il programma A, verranno salvate esattamente 200 vite umane.
  • Se si adotta il programma B, c’è una probabilità di di salvare 600 vite umane e una probabilità di di non salvare alcuna vita umana.

Sapendo questo, quale dei due programmi vi sentireste di raccomandare?”.

La seconda formulazione prevedeva invece le seguenti alternative tra le quali scegliere:

  • Se si adotta il programma C, moriranno esattamente 400 persone.
  • Se si adotta il programma D, c’è una probabilità di che nessuno muoia e una probabilità di  che muoiano 600 persone.

Sapendo questo, quale dei due programmi vi sentireste di raccomandare?”.

Con il primo scenario, il 72% delle persone esprimeva una preferenza per il programma A, manifestando una preferenza per l’esito sicuro, mentre con la seconda versione del problema, il 78% sceglieva l’alternativa D, manifestando una maggiore propensione al rischio. La spiegazione di questa differenza riguarda il fatto che le enunciazioni del problema evocano frame differenti: il primo gruppo di soggetti ha codificato le vite salvate come un guadagno, assumendo un comportamento avverso al rischio nel compiere la propria scelta; il secondo gruppo, invece, ha codificato le morti come perdite e si è comportato in modo più favorevole al rischio.

Questo semplice esempio fa capire come il modo in cui si comunica abbia un’influenza notevole sulla percezione e di conseguenza sui comportamenti delle persone: parlare del 98% di superstiti rincuora, parlare del 2% di morti mette in allarme, nonostante l’informazione sia la medesima e induce a comportamenti differenti. Alla sostanza, quindi, va accompagnata la forma, seguendo il primo “assioma della comunicazione” di Paul Watzlawick, psicologo della Scuola di Palo Alto, secondo il quale è impossibile non comunicare. Ogni azione messa in atto è una comunicazione.

Anche decidere di non comunicare comunica in realtà qualcosa, soprattutto in contesti di crisi come quello che stiamo vivendo.

Risulta quindi evidente come le persone, per evitare reazioni irrazionali ed esagerate (che si tratti di eccessivo allarmismo e panico o totale diniego del rischio) necessitino di una comunicazione chiara, coerente e che non crei confusione e non favorisca errori nella percezione delle informazioni, tenendo presente che “tutto è comunicazione”, quindi non sono solo le parole a cui bisogna fare attenzione, ma anche il tono di voce, le espressioni e le azioni.

Il messaggio che vogliamo trasmettere a tutti con questo articolo e con quello precedente di Mirko Bresciani, è quindi quello di non farsi prendere dal panico. È sicuramente una situazione critica, che però può diventare ancora più critica se sfocia in panico, un black out mentale che prende il sopravvento sulla ragione e sulla logica generando atti inconsulti e aggravando così la situazione già eccezionale che stiamo vivendo.

== Giulia Songa esperta in Consumer Psychology e Human Behaviour. Dopo un dottorato di ricerca incentrato sul Neuromarketing fonda SenseCatch, una stratup innovativa che applica la psicologia dei consumatori e le neuroscienze al marketing, alla comunicazione e alla Human Performance.

 

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