Nel nostro precedente articolo, abbiamo avviato una riflessione sull’inevitabile limitatezza della razionalità umana e sui principali processi di semplificazione che vengono messi in atto quando siamo esposti a informazioni provenienti dall’esterno. Questi meccanismi automatici, e gli errori che ne derivano, influenzano il modo in cui interpretiamo le informazioni e, di conseguenza, il modo in cui ci comportiamo.
Una di queste scorciatoie cognitive prende il nome di euristica della disponibilità. Si tratta di un meccanismo automatico per il quale tendiamo a percepire la probabilità di un evento nella misura in cui esso è cognitivamente disponibile, ossia sulla base della facilità con cui riusciamo a richiamare eventi simili alla memoria, che dipende dall’impatto emotivo del ricordo. Se un evento è rilevante da un punto di vista emotivo, infatti, questo rimane impresso e il ricordo vivido inganna le persone sulla reale incidenza del fenomeno, facendolo percepire come più probabile. Un esperimento del 1978 di Slovic, Fischoff e Lichtenstein illustra chiaramente come l’incidenza degli eventi che hanno un forte impatto emotivo sia sovrastimata.
Chiedendo a un gruppo di persone di ipotizzare il numero di morti causati in un anno negli Stati Uniti da diversi eventi, venne rilevata una notevole sottostima della mortalità dovuta a patologie quali diabete e infarto, a fronte di una stima molto superiore rispetto al dato reale per la mortalità causata dai tornado.
Questo è dovuto al fatto che gli esempi di decessi provocati da catastrofi naturali o da eventi violenti, seppure presenti in numero minore rispetto a quelli attribuibili a patologie quali il diabete, sono più facilmente recuperabili dalla nostra memoria perché risultano più vividi in virtù del fatto che hanno un forte impatto emotivo. La comunicazione in questo gioca un ruolo cruciale, poiché l’utilizzo di termini o immagini che richiamano scenari che riescono a colpire il lato emotivo delle persone contribuisce a far percepire il rischio come molto elevato, in termini di probabilità che si verifichi un evento e di gravità delle sue conseguenze.
Per illustrare l’impatto emotivo che può avere la comunicazione, abbiamo deciso di svolgere un test, mostrando un video nel quale la virologa Ilaria Capua commenta la mappa del contagio in Europa diffusa dalla CNN. Durante la visione, abbiamo misurato l’intensità della risposta emotiva dello spettatore tramite la rilevazione della conduttanza cutanea (SC), indicatore diretto dell’attivazione del sistema nervoso.
Di seguito riportiamo un grafico dell’intero tracciato, mettendo in evidenza le sequenze e i momenti in cui il coinvolgimento emotivo presenta un incremento rilevante.
Fin dall’inizio, le parole pronunciate dal presentatore hanno un effetto rilevante sulla risposta emotiva dello spettatore. In particolare, la percentuale elevata di contagio viene percepita come preoccupante, con un picco di coinvolgimento nel momento in cui viene convertita in un numero concreto “miliardi di persone”. Il fatto di nominare un “collega di Harvard” conferisce maggiore credibilità al messaggio.
Da un punto di vista della riflessione sulla comunicazione, appare utile segnalare l’esistenza di un fenomeno di distorsione cognitiva denominato authority bias per il quale si tende ad attribuire maggiore veridicità ad un’informazione proveniente da una fonte autorevole anche nel caso in cui questa non sia correlata al contenuto. Questo perché la credibilità che conferiamo alla persona viene estesa anche ad ambiti diversi da quello di competenza. Un esempio è l’utilizzo di testimonial in ambito pubblicitario non necessariamente correlati al prodotto, come un personaggio del mondo dello sport – e non necessariamente un parrucchiere – per promuovere uno shampoo.
Il video prosegue con l’intervento della virologa, fonte autorevole sullo specifico tema trattato.
Dall’analisi del tracciato notiamo che ci sono due argomenti in particolare che portano ad un innalzamento del livello di coinvolgimento emotivo: il fatto che il virus continuerà a circolare e che la scarsa completezza dei database italiani sui virus renda complesso ricostruirne il movimento in Europa. In particolare, questo secondo punto è legato alla ricerca del primo “untore”. Tale termine, ripreso anche successivamente, crea un picco netto a livello di risposta emotiva, poiché richiama alla mente immagini e associazioni legate alla peste.
In riferimento allo specifico termine “untori”, vale la pena fare una breve riflessione sullo stigma sociale, un’attribuzione di pregiudizio che ha come conseguenza discriminazione e isolamento. Nel contesto della salute e nel caso particolare di un’epidemia, questo si riflette in una tendenza a etichettare, discriminare ed evitare alcune persone o specifici gruppi a causa di un legame percepito con la malattia.
Nell’articolo precedente abbiamo fatto riferimento all’euristica della rappresentatività e all’associazione iniziale delle persone di origine asiatica con il COVID-19 (anche a causa dell’utilizzo improprio nella comunicazione di termini quali “il virus di Wuhan”), ma nella situazione attuale i comportamenti discriminatori possono estendersi a chiunque si ritenga essere stato in contatto con il virus, con il rischio che la percezione di “ghettizzazione” spinga le persone a ignorare i sintomi, a essere riluttanti nel sottoporsi ai test o a ritardare la richiesta di assistenza. Tornando allo specifico esempio, il termine “untore” contribuisce a connotare negativamente i malati, poiché implica un’intenzionalità nella diffusione del virus e attribuisce una colpa a chi ha contratto il COVID-19.
Infine, si registra una risposta emozionale rilevante quando la virologa parla di crisi sanitaria. I momenti del discorso in cui il coinvolgimento emotivo è superiore saranno quelli maggiormente ricordati dallo spettatore, che li utilizzerà, anche in maniera inconsapevole, per valutare le informazioni successive sull’argomento.
Ci auguriamo che questo momento difficile per l’Italia e per il mondo venga superato il prima possibile ma, nel frattempo, speriamo che qualsiasi forma di comunicazione, soprattutto quella mediatica, tenga conto delle conseguenze di come vengono presentate le informazioni, in modo da sensibilizzare le persone senza creare un panico diffuso che non può portare ad altro che a comportamenti irragionevoli e dannosi.